Huawei e la strategia 2020 delle “New Edition”

Fabio Angeloni 11 Maggio 2020 Mobile

Gli smartphone Huawei, il 5G, il ban americano e la strategia vitaminica dei prodotti con suffisso “New Edition”: i nuovi modelli Huawei P30 lite New Edition e Huawei P30 Pro New Edition

Premesse contestualizzate


Headquarter
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Introduzione

Sul colosso Huawei c’è poco da aggiungere rispetto a quanto già sappiamo. In soli 33 anni il famoso marchio dei petali rossi è divenuto un colosso globale che ha solidamente agguantato il secondo posto nel mercato globale degli smartphone, alle spalle di Samsung, facendosi strada nel comparto grazie alla qualità di prodotti ben ingegnerizzati e impreziositi da un comparto fotografico curato da Leica. Per comprendere meglio il quadro in cui si iscrive la commercializzazione di questi smartphone “new edition”, può però essere opportuno un breve résumé.

Cosa sta accadendo nel settore delle TLC?

Si potrebbero utilmente fare interessanti elucubrazioni geopolitiche su quanto sta accadendo da un po’ di tempo a questa parte nel comparto delle telecomunicazioni fisse e mobili, che potrebbero prendere le mosse dalle recenti prove di distacco della rete interna dall’internet globale portate a termine con successo dai governi Russo e Cinese. Ma non è certo questa la sede idonea per discuterne. Non può però essere tralasciato il fatto che la nascita e lo sviluppo di sistemi operativi per smartphone diversi dai due soli (americani) esistenti, piuttosto che essere considerato un danno nemmeno tanto collaterale di un ban, possa essere interpretato come un tentativo di garantire totale autosufficienza telecomunicativa all’area.


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Supponendo per un momento che lo sviluppo dell'HarmonyOS (già HongMeng OS) cinese e del russo Aurora possa ubbidire a questo disegno (anche considerando il fatto che, secondo il report Omdia, nel secondo semestre del 2019 Huawei è divenuta il principale costruttore di terminali per la telefonia mobile anche in Russia, oltre che - come noto - in patria), andrebbe considerata con attenzione l’ipotesi che in un futuro non troppo lontano questi sistemi operativi per smartphone possano poi essere offerti in dote ad altri importanti player d’area che magari patiscono la supremazia dei due riconosciuti capofila del comparto, le americane Apple Inc (terzo player del comparto globale, ma primo brand riconosciuto globalmente nel 2018, secondo Interbrand), con il suo iOS proprietario mai ceduto a terzi, e Google LLC (secondo brand riconosciuto globalmente nel 2018, secondo Interbrand), con il suo sistema operativo Android che governa tutti i restanti smartphone di generazioni recenti prodotti sul pianeta (si tratta di una percentuale di poco inferiore ai due terzi del totale). A questo proposito è forse non inutile rammentare come anche Samsung (primo player mondiale e sesto brand riconosciuto globalmente nel 2018, secondo Interbrand), a suo tempo, avesse sviluppato un ottimo sistema operativo, il Tizen (linux based), che sembrava avere ottime prospettive applicative anche nell’ambito dei sistemi operativi per la telefonia mobile. Ma il marchio sudcoreano all’improvviso si è trovato a dover fronteggiare le difettosità riscontrate sulle batterie dei Note, che sembravano esplodere ad alta quota, e non molto dopo i malfunzionamenti rilevati sugli schermi del rivoluzionario modello Fold fornito in forma prototipale alla stampa. Immagino non sia stato certo a seguito del prodursi di questi eventi, quanto piuttosto in relazione a precise strategie aziendali, che Tizen, malgrado avesse fatto una timida comparsa su alcuni modelli della serie Z, è stato però relegato al meno esaltante ambito della gestione di smarttv, smartwatch e macchine fotografiche.

 


Huawei Xiliubeipo Village​
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Il ban americano

Sempre con l'intento di facilitare la comprensione del contesto di riferimento, è bene a questo punto ricordare la genesi del famoso ban americano, nato da una controversia sulla sicurezza dei dati che transitano sulla tecnologia 5G messa a punto dalle due maggiori aziende cinesi nel settore globale delle reti e infrastrutture per le telecomunicazioni. ZTE, inizialmente coinvolta al pari di Huawei, sembra stia traendosene fuori, non senza aver dovuto considerare le pesanti condizioni contenute in un accordo divise in sanzioni economiche, nella costituzione di un fondo di garanzia, nel rinnovo della dirigenza e in uno stringente monitoraggio tecnico americano. Più in generale è opportuno precisare che la controversia ricomprende anche operatori mobili quali China Mobile ed altri intenzionati a creare o ad utilizzare strutture 5G sul suolo USA. Il problema di questa tecnologia potrebbe consistere anche nella presenza di backdoors (che, proprio in quanto non individuate all’origine, non vengono tecnicamente dichiarate) grazie alle quali soggetti malintenzionati potrebbero essere in grado di penetrare e intercettare il flusso dei dati. Da un altro punto di vista, che la strategia di puntare all’affermazione del 5G fosse azzeccata lo conferma il dato secondo il quale nel primo trimestre 2020 Huawei in Cina detiene più del 50 per cento delle vendite di dispositivi compatibili.


Aerial view of Hangzhou Research Center
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Dopo ripetuti interventi dilatori, che si sono estrinsecati nella proroga di licenze tecniche temporanee, il 16 maggio 2019 il Presidente USA ha inserito Huawei (e una settantina di società ad essa collegate, compreso il noto marchio Honor) nella c.d. Entity List, decretando di fatto l’impossibilità per le aziende americane di intrattenere rapporti commerciali con questi soggetti per ragioni di sicurezza nazionale, tranne nei casi coperti da autorizzazioni specifiche e – a contrariis – ha statuito l’impossibilità per le società del gruppo di Shenzen di vendere o installare apparecchiature negli USA. Tre giorni dopo Google LLC (seguita da altri produttori di componentistica usata nella telefonia mobile) si conformava alle disposizioni e ritirava le licenze Android al brand, escluse le parti AOSP, Open Source, sviluppate dal kernel Linux sottostante all’OS.


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Questa azione clamorosa, adottata con determinazione quasi ferina ha stupito molti; a ben guardare, però, potrebbe essere considerata semplicemente il tentativo di riequilibrare la situazione rispetto a quanto già avviene in Cina, dove da tempo alcune app Google (ed altre della galassia Zuckerberg) sono state rese di fatto inutilizzabili (a meno di frapporre alla rete un VPN, ma questa è tutta un'altra storia). Nel frattempo, però, tutto questo ha determinato il paradosso che - in piena battaglia globale sull’infosfera - ai tavoli dello standard-setting del 5G la presenza dei colossi americani dell’high-tech si è via via diradata.

 


Ren Zhengfei durante un'intervista con il Financial Times
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Il Capo di Huawei scende in campo

Comunque, ipotesi più o meno fantasiose a parte, Ren Zhengfei, fondatore e CEO della multinazionale con sede a Shangai (uomo considerato quasi un fantasma per via del suo proverbiale riserbo), ad un certo punto della storia si è improvvisamente appalesato sulla scena internazionale e ha iniziato a lavorare in modo indefesso per rispedire al mittente le accuse che sono state mosse a Huawei, che peraltro ha promosso (e poi perso) una causa intentata in una corte federale texana innanzi al giudice distrettuale Amos Mazzant. A complicare le cose il 1° dicembre 2018 quasi all’improvviso è stata arrestata sul suolo canadese la figlia del capo indiscusso di Huawei, la 47enne Meng Wanzhou (CFO del brand), mentre era in transito all'aeroporto di Vancouver e in ottemperanza ad un mandato di cattura americano (con richiesta di estradizione da eseguirsi in ottemperanza ad un trattato bilaterale) emesso dal Dipartimento di giustizia USA, peraltro per motivi non legati al 5G bensì alla violazione dell'embargo per forniture telefoniche all'Iran. Questo avvenimento indubbiamente è sembrato elevare il livello del confronto, provocando una crisi diplomatica che ha comportato financo l’intervento del ministro degli affari esteri cinese Wang Yi. L'udienza preliminare sulla estradizione ha avuto luogo innanzi alla British Columbia Supreme Court di Vancouver e il giudice William Ehrcke in un primo momento aveva negato alla donna gli arresti domiciliari, in seguito concessi sotto corresponsione di una cauzione di 7,5 milioni di dollari ma mantenendola in stato di detenzione, sorvegliata mediante braccialetto elettronico, in una abitazione di Vancouver. Questo è il succo del recente passato.

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