Hi-Fidelity Milano Autunno 2025 - Prima parte

Fabio Angeloni, Fabio Sacchieri 14 Novembre 2025 Audio

L'Hi-Fidelity è la più importante e longeva rassegna fieristica italiana. Ci siamo a recati a Milano per vedere la 55a edizione e parlarvene. Prima parte


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SOMMARIO

 

LV Hi-Fidelity: La “mostra mercato” dove l’audio incontra la gente


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Stefano Zaini è il re delle mostre italiane di alta fedeltà non solo in termini di mera anzianità di servizio maturata alla 55a edizione e dopo aver assommato 3.500 espositori totali, ma anche e soprattutto per l’estrema varietà dell’offerta e per la raffinatezza di risultato. I suoi Hi-Fidelity (per gli amici, HF) hanno letteralmente fatto la storia di questa passione e stormi di appassionati ogni volta accorrono da ogni parte del Paese per partecipare alle sue sofisticate mise en place.

Giunti a Milano in zona Lotto, non abbiamo non potuto notare che l’Hotel di lusso Meliá stia diventando un nuovo grande classico delle esposizioni milanesi. Solo per dirne una, facendo ingresso nell’ampio atrio - tra l’altro - abbiamo notato pendere dall’alto gli eterei ed elegantissimi cilindri Noctambule di Flos disegnati da Konstantin Grcic, con il che la struttura sembrava voler mettere le cose in chiaro con i visitatori, implicitamente rimarcando da subito l’alto lignaggio dei luoghi.

Considerazioni estetiche a parte, anche in questa occasione l’HF perpetrava il suo stile più autentico, con porte aperte ed ingresso gratuito dalle 9 alle 19, offrendo numerose demo nei piani gremiti di salette piene di ogni ben di Dio e con tutti i corridoi brulicanti di appassionati, tecnici e curiosi. Qui l’alta fedeltà non è solo esposizione, ma anche contatto diretto: importatori, produttori ed editori mostrano le novità di mercato, rispondono alle domande degli appassionati, esplicano il senso delle diverse filosofie progettuali inverate nei prodotti tendenzialmente destinati ad arricchire il mercato del due canali. La formula adottata resta quella che ha contribuito a trasformare l’Hi-Fidelity nella rassegna Italiana di settore più longeva: demo continue, workshop negli spazi dedicati, libertà per gli espositori di presentare o proporre in modo diretto, con un’attenzione concreta per l’ascolto alla fonte, vale a dire le migliori condizioni possibili.


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Come detto in apertura, a guidare con mano sicura l’organizzazione c’è sempre The Sound Of The Valve, ovvero Stefano Zaini, rigoroso monaco officiante di un evento che negli anni si è consolidato ed è divenuto - di fatto - un autentico riferimento per il mercato.

Quest’anno la città meneghina vive un doppio appuntamento concomitante, in quanto nel medesimo weekend un’altra interessante rassegna attrae l’interesse degli appassionati, a conferma del fatto che si è di fronte ad una passione che non conosce flessioni e che attira un pubblico davvero trasversale.

L’esposizione era immensa e provare a parlare di tutto e di tutti avrebbe costituito probabilmente un fuor d’opera, non essendo peraltro Av Magazine l’organo ufficiale di stampa della rassegna: lasciamo quindi volentieri il gravoso compito ad altri. Ad ogni buon conto, come sempre abbiamo diviso il corposo reportage in due parti, al fine di agevolarne la lettura. Cercheremo comunque di essere sufficientemente esaustivi (perdonateci l’ossimoro) provando a descrivere quel che abbiamo ascoltato con l’orecchio curioso e poi appuntato, taccuino alla mano, sulla maggior parte delle sale che abbiamo avuto il piacere di visitare, per raccontare non solo di brand e sigle (che in fase di lettura talvolta si rivelano addirittura un impedimento alla scorrevolezza del testo), piuttosto delle sensazioni che abbiamo vissuto: quando un impianto ci ha emozionato, quando è risultato neutrale, quando l’acustica della sala specifica dell’hotel ha aiutato e quando invece ha reso complesso il lavoro di chi ha composto e posizionato il set. Perché l’HF è soprattutto questo: incontri, scelte, musica.

 

Grandinote

Precisione e ordine, con qualche sfumatura di freddezza


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Alle 9,15 facevamo ingresso in questa sala, appena aperta e forse non ancora pronta ad accogliere gli ospiti. Ne abbiamo quindi approfittato per scambiare quattro chiacchiere con Salvatore “SS68” (e con il simpatico Paolo), caro amico e simpatico forumer di AV Magazine proprietario del famoso Metropolis Home Theater, congratulandoci per il suo ultimo iper-super-acquisto fronte video. Dopo poco abbiamo potuto apprezzare la sala di Grandinote, che si presentava ampia e visivamente confortevole. La sorgente al lavoro era il bell’Alfadue che pilotava il preamplificatore dual mono in classe A Celio il quale a sua volta alimentava ben due amplificatori stereo integrati Solo, che adottano la tecnologia magnetosolid e sono in grado di erogare 60 Watt in classe A pura non negative feedback per ognuno dei quattro canali complessivi, due collegati agli speaker anteriori Mach 2 Estrema con tecnologia SRT senza crossover in configurazione d’Appolito, e i restanti due collegati a due subwoofer a colonna dotati di 4 driver ognuno (per la parte visibile), posti in secondo piano agli angoli della sala e non meglio identificabili, con cablaggio Kimber Kable.

Entrare in questa sala è sempre un piacere per chi ama la scena ben costruita: nell’ampio spazio gli strumenti si disponevano davanti all’ascoltatore con naturalezza, soprattutto se si riusciva ad occupare la posizione centrale. Merito anche di una insonorizzazione curata, che evitava riflessioni e confusione nei passaggi più complessi.


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Nel corso della nostra permanenza abbiamo ascoltato Walking on the moon, di Yuri Honing Trio, tratto da Star Tracks, poi ci siamo fatti rapire dalle belle voci de La canzone di Marinella, di De André cantata con Mina, con un ascolto in cui risultava sempre preminente l’iperdettaglio, la sottigliezza delle voci, il supercontrollo della gamma mediobassa, che a tratti risultava quasi reticente. La separazione era eccellente: ogni strumento aveva il suo spazio, non si creavano sovrapposizioni e il dettaglio era alto, capace di restituire microinformazioni con chiarezza. La gamma di frequenze era completa, anche se il basso non scendeva molto in profondità, preferendo l’ipercontrollo alla musicalità. La voce femminile era piacevole, ben scolpita, ma con una sfumatura di freddezza che tradiva la ricerca di precisione assoluta: un equilibrio che privilegiava l’analisi rispetto al calore. Semplicemente spettacolare, invece, la riproduzione dei fiati. Un setup destinato a chi ama pulizia e coerenza, meno adatto per chi cerca emozioni viscerali, con quei due grandi subwoofer tenuti sempre a briglia stretta.

 

Ekos, Vanity Sound

Energia e dettaglio, con qualche ombra sull’acustica


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Non saremo certo noi a disvelare al grande pubblico degli appassionati la figura di Simone Berti, da sempre sinonimo di alta fedeltà e videoproiezione con il suo ampio e fornito negozio Home Cinema Solution di Ponte San Giovanni, a Perugia. Il marchio Ekos, “suono”, è da tempo in cima ai suoi interessi e dopo avergli dato la luce molti anni fa, ne cura la crescita presentandone i prodotti nelle manifestazioni di settore, anche estere. La sala in cui suonava il set era di fatto enorme e non sembrava aver subìto alcun trattamento ambientale. Guardando un po’ meglio, si comprendeva che il suono dei “Suono” (consentiteci l’allitterazione) veniva corretto da 4 trappole attive della bergamasca Vanity Sound, gli Alfred Bass Reflection Notch - BRN, ancora allo stadio non definitivo, di cui scovavamo i microfonini nascosti tra le fronde delle piante: considerando la natura estetica dei driver probabilmente il sistema operava mediante la cancellazione del rumore spurio sulle basse frequenze. Sul fronte anteriore erano installati il preamplificatore The driver e due finali The first in classe A/B ad alta corrente con una potenza di 330W su 8 Ohm, 660W su 4 Ohm e 1320W su 2 Ohm, con cablaggio e distribuzione di rete sempre di Vanity Sound. Torreggiavano in sala, è il caso di dirlo, ben 2 coppie di monitor 12 (driver dinamici, impedenza 4 Ohm) con l’aggiunta - letteralmente in mezzo - di un supertweeter a tromba. Il set emanava potenza da vendere, ma produceva un suono come lievemente affilato. Da fonte digitale venivano invece riprodotti in altro momento A trace of grace, di Michel Godard, con il bel sax di Gavino Murgia, tratto da Monteverdi e la Sinfonia no. 5 di Mahler IV Adagietto (live) della Bavarian Radio Symphony Orchestra & Mariss Jansons.


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Come sempre Simone non si (af)fida di un mediatore tecnologico e quindi sul giradischi EMT 948 è rimasto a lungo a roteare la Suite española no. 1, opera 47 di Raphaël Feuillâtre il che certo non ha giovato ad una valutazione appropriata. La prima impressione che si traeva dall’ascolto era di presenza e di impatto: i tanti woofer di generose dimensioni davano corpo alla gamma bassa, regalando un ascolto fisico e coinvolgente. La dinamica era adeguata, soprattutto sulla chitarra, che emergeva con attacchi rapidi, corde vibranti e un dettaglio che sorprendeva per precisione. Tuttavia, la sala – particolarmente ampia, ma evidentemente non perfettamente neutra, malgrado la correzione ambientale attiva – introduceva qualche risonanza che alterava la naturalezza del messaggio sonoro, con onde che sembravano venire assorbite in modo irregolare. Si percepiva anche una certa direzionalità degli speaker, forse per via dei supertweeter, che finiva per penalizzare chi non era seduto in posizione centrale. Con il cambio di brano, il suono dei fiati confermava la cifra stilistica del setup, poiché venivano riprodotti con un ottimo dettaglio, risultavano di grande impatto, ma mantenevano quella leggera impronta ambientale che sottraeva coerenza alla scena. Un impianto che puntava alla forza e alla precisione, ideale per chi ama ascolti energici e ben scolpiti.

 

Technics

Il dio wireless al tele-comando


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Nella stessa sala di sempre, ormai praticamente ridenominabile “Sala Technics”, ritrovavamo il medesimo stand sulla scia dell’edizione scorsa. Nel nostro momento venivano proposti staticamente il grande impianto di sempre, con macchine appartenenti alle serie Grand Class e Reference Class, mentre in ascolto c’era il bel (IF Design Awards 2025) wireless HiFi speaker system SC-CX7005, che esibiva sonorità particolarmente convincenti, vieppiù in ragione del form factor estremamente contenuto del set. In questo modo Technics commemorava il suo 60° anniversario, ovverosia orgogliosamente proponendo ai visitatori una soluzione moderna a tutto vantaggio delle nuove generazioni, che amano l’HiFi pratico e privo di ritualità, al contempo ricco di tutte le comodità garantite dalle semplificazioni intrinseche offerte dal plug-and-play. E (perchè no?) anche esteticamente piacevoli.

 

Indiana Line,Exposure

Calore e sostanza in spazi ridotti


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La nuova serie Utah di Indiana Line, declinata in sala con il modello 8, abbinata alle elettroniche Exposure e pilotata dal music streamer e preamplificatore Wiim Ultra, confermava il DNA del marchio: morbidezza e calore che invitano all’ascolto prolungato. La stanza, però, era molto piccola e il posizionamento basso dei diffusori comprimeva la scena in altezza, togliendo respiro alla ricostruzione spaziale. I woofer generosi compensavano con un impatto piacevole, che dava corpo alla gamma bassa senza mai ricadere nell’eccesso. Nei brani più semplici il risultato era convincente, poiché il set esibiva una timbrica accogliente e in definitiva mostrava di possedere un buon equilibrio complessivo. Quando la playlist si spingeva sul synth-pop anni ’80 a volumi elevati, la situazione però mutava di colpo: la stanza saturava, la scena si compattava e il sistema entrava in leggera confusione, facendo perdere definizione ai passaggi più articolati. Estremamente godibile, invece, la resa sull’immarcescibile From the beginning, di Emerson, Lake & Palmer, tratto da Trilogy, che con l’ascolto della candida voce di Lake faceva fare un piacevole tuffo nel placido lago del passato ai boomer presenti. Il claim del marchio restava però assolutamente chiaro: sfornare prodotti ideati per mantenere un rapporto qualità/prezzo interessante, diretti a chi cerca musicalità e sostanza senza dover sostenere investimenti proibitivi. Un setup che avrebbe potuto sprigionare tutto il suo potenziale se solo fosse stato posizionato in un ambiente più arioso (ci rendiamo conto, anche più costoso) e fisicamente più in alto. A sorpresa, nello stand di Indiana Line ci siamo imbattuti nell’instancabile team della famiglia Audiocostruzioni, guidato dal patron Davide Sbisà insieme ai figli Filippo e Matteo.

Per chi non lo sapesse, il negozio di Audiocostruzioni è nato nei primi anni Duemila come piccola realtà artigianale dedicata alla costruzione e alla vendita di impianti audio, Audiocostruzioni è poi cresciuta fino a diventare un vero punto di riferimento nazionale per gli appassionati HiFi in quel di Carpi — e una delle realtà più attive e seguite del panorama social, con una presenza costante su YouTube, Facebook e Instagram, dove condividono le loro prove, esperienze e riflessioni sul mondo dell’audio. La sala, gremita fra camera e anticamera, non ci ha purtroppo permesso di fermarci per una chiacchierata audiofila, ma siamo certi che attraverso i loro canali racconteranno presto questa esperienza con il consueto entusiasmo e la storica affezione al marchio Indiana Line che da sempre li accompagna.

 

Sonus Faber, Accuphase, dCS

Eleganza timbrica e spazialità, con qualche ombra sulla pulizia


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Il connubio tra gli speaker Sonus Faber (modello Amati Supreme) e le elettroniche Accuphase e dCS (linea Lima) è sovente considerato un trinomio di gran classe, per via della sofisticate ebanisterie degli speaker, cifra stilistica del marchio dai tempi dell’indimenticato Franco Serblin, della severa e rigorosa estetica delle elettroniche, rimasta pressoché immutata nel corso dei decenni di Accuphase, e del notevole gradiente innovativo dei solidi prodotti dCS. L’ascolto confermava i presupposti: tonalità neutra con un buon livello di dettaglio che restituiva naturalezza alle voci e agli strumenti. La scena risultava ampia e profonda, con una spazialità che avvolgeva e una notevole separazione dei suoni, capace di mantenere ordine anche nei passaggi più complessi. Tuttavia, in Hurt di Johnny Cash, tratto da American IV: The Man Comes Around, c’era qualche velatura: il suono non appariva del tutto pulito, con un sospetto di rumore microfonico che toglieva trasparenza. Il basso era presente ma non molto esteso, mentre la dinamica e la velocità sembravano un po’ contenute, anche se la playlist non aiutava a verificarne il pieno potenziale. Un setup che puntava alla raffinatezza, ideale per chi è alla ricerca di ascolti eleganti, ma che avrebbe brillato maggiormente in presenza di una selezione musicale più adeguata. Anche in questo caso, la presenza di un mediatore tecnologico sarebbe risultata davvero preziosa!

 

Audiolab, Fyne Audio, Gold Note, Matrix Audio

Tradizione e carattere, con qualche compromesso


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Tecnofuturo presentava ben due impianti. Il primo con Matrix Audio TS-1, Audiolab 9000A e Fyne Audio F502S. Quando siamo passati, abbiamo ascoltato l’altro che, quanto meno nell’estetica, richiamava il passato e più precisamente i grandi speaker tendenzialmente coassiali di un noto marchio britannico. Gli onori di casa li facevano infatti un paio di splendide casse marca Vintage modello Classic X, rigorosamente made in the UK, pilotati da sorgente digitale da elettroniche Gold Note CD-10, IS10, PA-10 Evo, Pianosa, PSU-10 Evo.


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La sala ci accoglieva con una bella scena ampia, poco direzionale, ma leggermente bassa rispetto alle aspettative. Il suono aveva un connotato vintage, che emergeva in modo diverso, a seconda del brano in riproduzione: quando la traccia era ben registrata, si udiva una piacevole connotazione live, con energia e presenza. La profondità, però, restava limitata e il sistema tendeva a suonare forte, quasi a voler compensare la mancanza di articolazione. Con i Dire Straits di When it comes with you, tratto da On every street, il set emanava un suono rigoroso, come trattenuto in basso. Invece, un po’ incredibilmente, una bella profondità di esecuzione faceva capolino con la placida voce gutturale di Roger Waters in Time, tratto dal recente The dark side of the moon redux. Qui, come si suol dire, era tutta un'altra musica e addirittura il paradigma si ribaltava: il set emetteva un suono caldo, ma (incredibilmente!) risultava carente in gamma medio alta. Nello sweet spot si ricreava sempre una bella immagine sonora e una tonalità generale che non poteva non richiamare - guarda caso! - un certo suono vintage: nomina sunt numina!


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Va positivamente considerato il fatto che l'emissione dai driver concentrici di bassi e medioalti semplificava l’allineamento temporale e donava una maggiore naturalezza di emissione. Il rumore in sala non aiutava, ma sorprendeva la resa complessiva del set considerando l’assenza totale di trattamenti acustici in ambiente: merito probabilmente della moquette massiccia su pavimento e pareti, che smorzava riflessioni e donava un minimo di equilibrio e forse anche delle regolazioni previste nella parte inferiore frontale dello speaker. Si passava ad ascoltare Fever, di Beyoncé, in cui riemergeva un’ottima gamma medio alta. La nostra visita si concludeva sulle note di No sanctuary here di Chris Jones, tratto da Roadhouses and Automobiles con una riproduzione all’altezza dell’ottima qualità dell’incisione, anche se con questo brano specifico si avvertiva qualche connotato di troppo strettamente cabinet correlato. Alla fine della seduta non si poteva non concludere di essere di fronte ad un set molto programma-dipendente, dunque neutro (tranne nell’ultima esecuzione), che forse non stupiva ma anche non perdeva mai la propria compostezza. Un setup che puntava più al carattere che alla perfezione, ideale per chi ama ascolti dal sapore retrò e non teme qualche imprecisione in cambio di impatto e atmosfera.

 

Accuphase, McIntosh, Klipsch

Calore valvolare e dolcezza, ma attenzione alle interazioni ambientali


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Anche da Pieffe Elettronica si respirava un’aria di (im)piante sempreverdi. L’impatto visivo era fantastico: diffusori imponenti Klipsch ed un modello custom made abbinati ad elettroniche Accuphase allo stato solido e McIntosh a valvole, che imprimevano sul suono la loro inconfondibile firma. I primi brani scelti, con voci maschili, avrebbero dovuto assicurare una riproduzione profonda e avvolgente, con timbri che accarezzavano l’ascoltatore. The sound of silence di Johnny Cash veniva però riprodotto a volume decisamente troppo alto per via della sala affollata e rumorosa ed il suono risultava alla fine rigido, forzato, deprivato di ogni piacevole nuance. Lievemente migliore, invece, risultava la resa dell’aria Nessun Dorma tratta dalla Turandot, in cui la voce di Piotr Beczala si espandeva con un’interessante estensione tonale anche se il dettaglio fine restava un po’ indietro sempre a causa del volume. Con tutta onestà anche a volumi sostenuti la distorsione risultava comunque contenuta, ma quando la trama orchestrale si infittiva, la sala – complice forse una disposizione non ottimale dei diffusori – iniziava ad interagire, generando confusione e perdita di definizione. Gli ascolti terminavano con il meraviglioso Les contes d’Hoffmann, interpretato da Ophelie Gaillard con la Morphing chamber orchestra, tratto da Cellopera, anche qui riprodotto ad un volume lievemente elevato rispetto al giusto che finiva col produrre un effetto risuonante. Un setup che seduceva per il fascino del valvolare di qualità e per la notevole presenza scenica degli speaker, ideale per chi ama ascolti emozionali, ma che richiede ambiente e posizionamento particolarmente curati.

 

Marten, Soulution, Techdas, Audia Flight

Tra musica, storia e artigianato: la magia di una chitarra centenaria


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In questa sala l’audio riprodotto ha ceduto compostamente il passo alla musica dal vivo, con un evento speciale dedicato alla riproduzione di un clone di un'antica chitarra. Officiante Marco Lincetto, patron di Velut Luna, che ha esordito battezzando la sala come quella che contiene il miglior impianto e si è complimentato per la capacità di comporre il set e di farlo suonare in ambiente. L’atmosfera era intensa, ma la folla era tanta – anzi, decisamente troppa – e rendeva quasi impossibile avvicinarsi per vedere la chitarrista eseguire i brani e per udire adeguatamente il suono prodotto dal suo strumento.


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Veniva presentato il nuovo lavoro di Federica Artuso, Papier-Maché, che proprio il primo giorno di apertura dell’HF, l’11 ottobre, aveva vinto ex aequo il premio internazionale Chitarra d’Oro 2025 per il miglior disco al Convegno internazionale di chitarra svoltosi al Conservatorio di Milano. Lo strumento usato per la registrazione, che abbiamo potuto udire dal vivo, è una leggerissima chitarra speciale (995 grammi) con fondo di in legno molto sottile (quasi un cartone) ideata nel 1862 dal liutaio Antonio de Torres Jurado, lo “Stradivari” della chitarra, il cui esemplare originale è esposto al Museu de la Música di Barcellona. Questa leggerezza regala libertà di movimento e fluidità di esecuzione.


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Lincetto osservava giustamente che l’appartenenza della chitarra a un mondo antico è ricordata dal suono piccolo, che veniva emesso in un mondo in cui non c’era rumore. Oggi il rumore di fondo è invece alto. Questa chitarra possiede intimità dinamiche, mentre la chitarra classica è andata alla ricerca della potenza, perdendo però capacità espressive. Bisogna invece allenarsi ad ascoltare, perché il messaggio complesso non è mai immediato. Per avvicinarci alla percezione va usato un volume basso, che ci aiuta a cogliere micro-dinamiche e nuance. Terminava ricordando che la chitarra classica è uno strumento molto difficile da registrare, in quanto va individuato il perfetto equilibrio tra i vari fattori che ne compongono il suono. Era presente in sala anche il liutaio, custode di un’arte che unisce tecnica e poesia, pronto a spiegare i segreti costruttivi di questo autentico gioiello. Si è trattato di una sessione che è andata oltre alla semplice dimostrazione audio, poiché è riuscita a fare sintesi tra storia, artigianato e suono puro. Un'esecuzione in grado di far emozionare anche chi, come noi, tra la calca era riuscito a cogliere la magia sprigionata dalla vibrazione di quelle corde. Bravi tutti, davvero!

 

Vivid Audio, REL, VTL, Esoteric, Ortofon

Grande scena, regia autorevole, playlist altalenante


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Ci avviamo a terminare questa prima parte con la sala più prestigiosa di tutte. Già solo farvi ingresso è come varcare la soglia di un moderno auditorium: vasto spazio, una intera parete in vetro, un ambiente che per molti rappresenterebbe solo un vero e proprio incubo acustico. Qui, invece, la sfida è stata affrontata con intelligenza e competenza. Il set, regale, era composto da giradischi e braccio SME, testina Ortofon, lettore CD/SACD e streamer Esoteric, preamplificatori e finali di potenza mono VTL, veri cavalli di razza per erogazione di corrente e controllo. A completare la base armonica, i subwoofer REL, chiamati a dare corpo e fondamenta a un volume d’aria importante, mentre le Vivid Audio Giya presidiavano i lati del palco con la loro estetica scultorea e dispersione controllata, con cablaggio AudioQuest. Venivamo informati da Gianfranco Valletta, responsabile marketing e comunicazione di Audiogamma, che Marco Fullone avrebbe curato la mediazione tecnologica dell’evento Le grandi rimasterizzazioni del 2025. Ritrovandoli insieme, ci è subito sovvenuta la bella manifestazione organizzata tre anni fa al Parco della Musica di Roma sulla versione con Dolby Atmos di TDSOTM. Nel corso della presentazione Marco, music manager/programmatore musicale presso Radio Monte Carlo, ci ha proposto un interessante excursus discografico.

Il primo ascolto ineriva ad una novità in anteprima assoluta: “The great gig in the sky” tratto dal nuovo cofanetto di David Gilmour The luck and strange concerts in cui il brano che letteralmente ha segnato la generazione dei boomer, eseguito per poche decine di dollari dalla turnista Clare Torry, in questo live viene invece cantato “da tutti e 12”. Nell’attesa dell’incipit acustico del brano, in sala calava rapidamente un silenzio quasi irreale: parliamo pur sempre di una enorme sala con una lunga parete a vetri, trattata con una moquette non spessa ma onnipervasiva, con una forma di trattamento ambientale solo negli angoli, lato set. La scena sonora si apriva come un sipario, ampia e profonda, con un respiro che sorprendeva in un ambiente così riflettente. Qualche coda in gamma bassa affiorava nei picchi, ma era fisiologica: il sistema non perdeva mai il controllo, e il medio rimaneva pulito.


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Si passava poi ad un altro grande classico, The Lamb Lies Down on Broadway dei Genesis, nella 50° anniversario super deluxe edition che includeva un nuovo missaggio in Dolby Atmos del brano con ormai più di mezzo secolo alle spalle, un nuovo mix di Bob Mackenzie, supervisionato da Peter Gabriel e Tony Banks. La voce di Gabriel risultava però lievemente metallica, anche se la resa rimaneva convincente. Nonostante i sub impegnati a sonorizzare l’intero volume, sembrava mancare quella spinta dinamica che accende l’emozione, seppure poco propria del genere progressive, per via della datazione delle registrazioni.

Con il cambio traccia, il sistema sembrava respirare meglio. Su Joni Mitchell, la voce era centrata e naturale, i cori arretravano con una profondità che dava tridimensionalità alla scena. In ascolto c’era God must be a boogie man, contenuto nei nuovi box della cantante, che contengono brani, in parte rimasterizzati; i cofanetti si chiamano Joni’s jazz e sono declinati in 8 LP o in 4 CD con brani tratti dal suo repertorio dal folk fino ad arrivare al jazz. Come detto, emergeva la sua bella voce, ma permaneva quella nuance vagamente metallica, sebbene il funambolico Jaco (scomparso troppo presto e lasciando un vuoto colmato, solo in parte, dalle magiche slappate di Marcus Miller) con il suo Fender jazz fretless, armonizzasse e donasse completezza al messaggio sonoro. Eravamo molto disassati dallo sweet spot, ma la dispersione sonora sembrava quasi da speaker onnidirezionale, la voce si estendeva larghissima, sebbene forse poco focalizzata. In fondo al pezzo Wayne Shorter si appalesava in modo più evidente con i suoi tipici fraseggi eseguiti col sintetizzatore.


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Si passava quindi ad eseguire un brano tratto dal nuovo LP di Antonio Carlos Jobim, The Composer Of Desafinado, Plays, Verve Vault Series, registrato nel 1963, non giudicabile per i più di 60 anni passati dal master originario, anche se la bossanova scorreva calda e dettagliata: le chitarre avevano legno da vendere, le percussioni microcontrasto, il tutto senza mai virare sull'iperanaliticità.

Marco ci comunicava inoltre che era stato ristampato ancora una volta il capolavoro del compianto Pino Daniele, quel Nero a metà che noi tutti ben conosciamo, ma in una nuova edizione di Universal con solo 999 copie numerate in formato LP - sembra - tutte già esaurite. Questo disco ha sempre avuto una connotazione sonora particolare, un po' velata forse per via del multitracce analgogico utilizzato, ma con una solida linea di basso e batteria e la voce solo lievemente arretrata, per la gioia di Gigi De Rienzo e di Agostino Marangolo che hanno pistato vigorosamente sui loro strumenti. Si terminava con Battiato e la sala sembrava aver cambiato passo: apparivano ritmo, velocità, dinamica. I bassi erano presenti e controllati, forse un filo abbondanti rispetto alla voce, ma mai invadenti. Qui il sistema mostrava il suo lato muscolare, senza perdere la sua innata eleganza.

Dopo una demo da re come quella cui abbiamo assistito, una considerazione nel merito, però, ci sentiamo di farla. Sebbene ogni manifestazione Audiogamma/Fullone sia estremamente interessante perché ha un proprio preciso tema che viene sviluppato con uno svolgimento ordinato e razionale, malgrado il fatto che la discografia recente non offra tantissime perle che valga la pena di estrarre dalle valve delle ostriche, fatta salva la composizione del parterre di ascolto, composto per lo più da teste bianche e/o canute ad elevata capacità di spesa, vale la pena di ricordare che rimaniamo sempre nell’alveo di una grande manifestazione sul mondo dell’ascolto di qualità e riproporre rimasterizzazioni di capolavori di oltre mezzo secolo pone con forza la domanda se siano proprio questi i programmi giusti per esaltare le indiscusse qualità di un superimpianto come quello installato, non senza fatica e dispendio di mezzi, nella sala Velasca del Meliá.

Continua con la parte 2.

 

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