La Cina è una della cause. La Cina condanna a morte diecimila persone ogni anno. La cifra (fino ad oggi un segreto di Stato) compare in un documento di Chen Zhonglin, che non è un dissidente: anzi è un delegato ufficiale della municipalità di Chongqing e uno stimato giurista (è preside della facoltà di legge dell’Università Sud-Orientale cinese). Il documento del professor Chen è una proposta riservata al governo per alleviare la piaga delle esecuzoni capitali.Ogni anno 10 mila persone sono condannate a morte in Cina, «un numero cinque volte maggiore di tutte le esecuzioni che avvengono nel mondo», dice Chen.
Fino ad oggi, Amnesty International valutava le esecuzioni capitali in Cina sulle 5-6 mila l’anno. Il peggio è, aggiunge Chen, che le condanne «vengono immediatamente eseguite», impedendo ogni ricorso legale dei condannati.
C’è il sospetto che i corrotti magistrati municipali eccedano nelle condanne a morte perché sono cointeressati nel tragico ma lucroso business dei trapianti d’organo.
Già perchè in Cina gli organi dei condannati a morte vengono venduti.
Il Partito nel 1983 aumentò da 32 a 73 i delitti che comportano la pena capitale.
Dei nuovi reati capitali, ben 28 sono reati economici, come evasione fiscale, contrabbando e furto, che nei paesi civili sono puniti con lieve detenzione o anche solo con multe. Ad essere condannati sono soprattutto contadini che abbandonano la campagna per cercare lavoro in città. Per questo sono considerati clandestini e perseguitati (altro che i clandestini nostri).
Ma il regime è bravo a nascondere queste cose agli occidentali e cerca di dare un'immagine diversa di sè. La ditta francese di lusso Louis Vuitton ha aperto in Cina dodici negozi in dieci città, e deve agli acquisti dei cinesi ricchi il 17% del suo fatturato. A Shanghai, nel lussuoso quartiere di Jing An, un consorzio di 60 aziende francesi di marchi famosi ha aperto uno scintillante shopping center, il Plaza 66: vanno a ruba il costoso cognac XO e i cosmetici della Lancome, che ha l 20% della quota del mercato dei cosmetici di pregio in Cina.
Le case di moda Karl Lagerfeld e Jean Paul Gaultier vanno a Shanghai a presentare le loro collezioni. La Chanel ha esposto a Shanghai un gioiello in forma di rosa tempestato di 1500 diamanti. Ecco il paradosso: la Cina inonda il mondo di marchi contraffatti, ma compra insaziabilmente i marchi autentici. I vertici del partito e le oligarchie ad esso collegato sfruttano la massa dei cinesi.
Come noto, il primo vantaggio competitivo della Cina consiste nella miseria.
Quella in cui fa vivere i suoi lavoratori, nel fatto che paga gli operai 70 euro al mese (Eric Le Boucher, "Les vulnèrabilités du Dragon", Le Monde, 16 giugno 2005, p. 14.) Nonostante decenni di sviluppo esplosivo, 700 milioni di persone nelle campagne continuano a vivere nella povertà più nera, e spesso interi villaggi sono mantenuti dalle rimesse dei bambini mandati nelle città a lavorare (come schiavi infantili) per molto meno di 70 euro: si mantiene così un ricco serbatoio di bisognosi disposti a qualunque fatica pur di non fare la fame.
A proposito di fame. Durante la rivoluzione culturale cinese molti disperati erano costretti a mangiare feti abortiti. Ma in Cina, c'è il fondato sospetto che i bambini li mangino anche oggi. Lo rivelava, nell'aprile 1995, un'inchiesta del britannico «Telegraph» condotta nella provincia di Shenzen.
Per controllare se erano vere le voci, un reporter cinese di Hong Kong bussò all'ospedale di maternità dello Shenzen e chiese ad una dottoressa se poteva avere un feto da mangiare. Il giorno dopo, la dottoressa gli consegnava «un flaconcino pieno di feti della grandezza di un pollice». «Ce ne sono dieci qui dentro, tutti abortiti stamattina», disse la dottoressa. Freschi freschi. E quanto costano?
«Può prenderli gratis. Siamo un ospedale di Stato, non facciamo pagare. Di solito noi medici li portiamo a casa per mangiarli. Lei non ha l'aria di stare molto bene, perciò li mangi». Lo stesso giornalista del «Telegraph» intervistò una dottoressa della clinica Luo Hu nello Shenzen, tale Zou Qin, che ammise senza esitare di aver mangiato un centinaio di feti nei sei mesi precedenti.
«Sono nutrienti, fanno bene alla pelle ed ai reni».
Aggiunse che era un peccato «sprecarli».
La fornitura di questo cibo è abbondante: nello Shenzen si fanno almeno 7 mila aborti forzati l'anno, milioni in tutta la Cina.
Sicchè nel privato, un feto da consumare costa meno di due euro.
Il dottor Warren Lee, della Hong Kong Nutrition Association, conferma: «Mangiare i feti è una tradizione della medicina cinese, profondamente inserita nel folklore».
In Cina si vendono e consumano comunemente le placente umane, anch'esse ritenute curative: c'è un attivo contrabbando attorno agli ospedali, ogni placenta costa sui 2-3 euro. Naturalmente, il consumo di feti «non è un dettame del partito».
Il dettame del partito è semplicemente che donne che abbiano avuto già un figlio siano forzate ad abortire, anche al nono mese.
Ciò produce una certa abbondanza di questi «ricostituenti», che poi gli ospedali cinesi contrabbandano. Come del resto reni, bulbi oculari, pelle e polmoni dei condannati a morte giustiziati: un grandissimo business della nuova Cina.
Ma non per dettame del partito, si capisce.
Il «Telegraph» parlò con un altro dottore dello Shenzen, Cao Shilin, che negò il commercio.
I feti abortiti, disse, li mandiamo alle fabbriche che li usano per produrre medicinali.
Ovviamente, in fabbrica, la «lavorazione del prodotto» comincia con una bollitura per estrarne le sostanze ritenute curative.
Come si bolle la pelle dei giustiziati per estrarne collagene, che le signore bene occidentali poi si fanno iniettare dal chirurgo plastico per ingrossarsi le labbra ed attenuare le rughe.
Si tratta di collagene, quel materiale biologico che i chirurghi plastici iniettano per spianare le rughe e riempire le labbra.
Quello cinese costa solo il 5% del prezzo a cui è venduto il collagene prodotto in USA e in Europa.
Piccolo particolare: è ricavato dai cadaveri di condannati a morte in Cina.
Lo ha scoperto un investigatore di Hong Kong, che facendosi passare per un uomo d'affari interessato alla «merce» ha contattato una ditta biotech nella provincia di Heilongjiang, nel nord della Cina.
«Sì, estraiamo il collagene dalla pelle di prigionieri che hanno subito l'esecuzione, e di feti abortiti», ha confermato il direttore vendite dell'azienda.
Aggiungendo che il governo ha consigliato di tenere la cosa «riservata», visto «il rumore che questa attività provoca nei paesi occidentali».
Collagene umano Made in Cina è già stato venduto in Gran Bretagna, ha rivelato il quotidiano britannico Guardian, e probabilmente in altri Paesi europei.
Vogliamo continuare?
Dal 1950 esiste in Cina il sistema dei Laogai.
I Laogai sono i campi di concentramento cinesi dove, attualmente, milioni di donne, uomini e bambini sono condannati ai lavori forzati a vantaggio del regime totalitario cinese e di numerose multinazionali che investono o producono in Cina.
I Laogai sono solo un particolare dell'attuale realtà cinese e della «educazione del terrore» , coperta dal «segreto di Stato», che, in Cina, si pratica.
Decine di migliaia di esecuzioni di massa davanti a folle appositamente riunite.
Migliaia di organi espiantati dai condannati a morte e venduti con alti profitti.
Collagene preso dalla pelle dei morti per produrre cosmetici.
Decine di migliaia di aborti forzati (anche se al nono mese di gravidanza) e sterilizzazioni forzate (secondo l'articolo 49 del codice penale cinese).
Persecuzione sistematica contro i credenti di tutte le religioni e abuso della psichiatria a scopo repressivo politico (secondo l'articolo 90 del codice penale cinese).
Numerose organizzazioni umanitarie internazionali, il Comitato dei Diritti Sociali ed Economici delle Nazioni Unite e, recentemente, il Congresso USA, con una maggioranza di 413 voti a 1, hanno condannato il sistema dei Laogai e la continua violazione dei diritti umani in Cina.
Benvenuti nel Laogai, il Gulag cinese. La parola, che significa «riscatto attraverso il lavoro», è il nome collettivo dell'infinita rete di prigioni e campi di concentramento dove i condannati sono costretti al lavoro forzato.
Ma c'è una differenza rispetto al vecchio Gulag sovietico: con il passaggio al capitalismo, i lager cinesi sono stati trasformati in aziende.
Di successo, e grandi esportatrici.
Spesso, i lager cinesi hanno un secondo nome, diciamo così, commerciale.
Così la prigione numero 1 di Pechino appare sul mercato come «Qinghe Magliera Fine» (le detenute vi producono calze di nylon e di cotone per l'estero).
La prigione di Chengde è nota agli operatori del settore come «Calzature in gomma Chengde» ed esporta scarpe per ogni tipo di sport, al ritmo annuo di 18 milioni di paia. La prigione di Cangzhou produce ed esporta apparecchi di misura in Giappone, Gran Bretagna e Corea con il nome di «Officine Meccaniche Cangzhou»: ha un fatturato di quasi 5 milioni di dollari l'anno.
Molti a questo punto si chiederanno perchè noi occidentali tolleriamo tutto questo e facciamo affari con la Cina rendendoci complici anche noi.
Credo per un grosso errore e per opportunismo.
L'errore è stato quello di credere che la produzione a basso costo in Cina avrebbe fornito benessere a noi Occidentali. Invece al nostra crisi attuale nasce in Cina.
L'opportunismo è stato quello di volere sfruttare quella mano d'opera a basso costo per far arricchire i nostri industriali. Abbiamo chiuso gli occhi e finto di non vedere.
Pensate a quello che accadrà con questa crisi che colpirà tutto il sistema cinese.
Il regime diventerà molto più duro e spietato.
continua...