dedicato a chi non ama le B&W
Non mi piace utilizzare un’espressione del tipo “suono di riferimento”, ma è innegabile che in 30 anni di ascolto i diffusori Bower & Wilkins hanno rappresentato un parametro sonoro sempre attendibile e coinvolgente. Giampiero ed io eravamo rimasti senza parole ai tempi della presentazione della nuova serie “800”, impressionati anche per la mole di informazioni fornita alla stampa (chiara, trasparente, esaustiva), che illustrava una dotazione tecnica di tutto rispetto e andava a centrare la realtà di una linea di produzione basata su ricerca e sviluppo, investimenti e volontà di cimentarsi con la realtà sonora offerta dalla discografia. Proprio qui sta il nocciolo della questione. Quando abbiamo a che fare con un impianto di riproduzione sonora, non si ascolta musica in senso astratto, quasi che per magia un determinato evento sonoro entrasse nella catena hifi per giungere sino ai diffusori per la ritrasformazione da segnale elettrico in vibrazioni dell’aria. La sorgente musicale è sempre e comunque il disco (qualunque sia il formato che andiamo a considerare). Noi ci occupiamo della più o meno corretta riproduzione di un supporto che è già di per se una riproduzione. L’evento musicale è stato infatti registrato in un dato momento in un certo ambiente, con una microfonazione più o meno complessa e con l’intervento determinante in sala regia sui livelli delle singole tracce, equalizzazione e quant’altro. Questa è la realtà del supporto musicale, una sorgente sonora che non ci è dato modo di conoscere nella sua realtà effettiva, un evento “fotografato” in un certo momento in base alla visione artistica dell’interprete e tecnica del responsabile dell’incisione.
“This being the state of affairs” (come gli inglesi direbbero “stando così le cose”) il concetto di riproduzione sonora, in senso letterale, sembrerebbe un’impresa destinata al fallimento. È chiaro, tuttavia, che c’è un possibile compromesso, nel senso che con un po’ di esperienza non è difficile individuare gli impianti più o meno “attendibili” nella riproduzione di un disco, o meglio della media di quelle incisioni che fanno parte del piacere musicale di ciascuno. Audio Review è stata tra le pochissime riviste che si è presa la briga di andare a visitare orchestre e le sale da concerto nel momento in cui erano impegnate ad incidere dischi, curiosando dietro le quinte per raccontare la nascita della vera fonte della riproduzione sonora. Vi assicuro che ben pochi giornalisti hanno avuto al fortuna (la voglia e la possibilità) di poter seguire in prima persona delle sessions di incisione. Ne abbiamo viste e sentite delle belle, a Londra come a Milano, ad Amsterdam come a Berlino. In tutte queste circostanze, assieme al sound engineer abbiamo ascoltato il master nel momento in cui veniva realizzato. Prima di esso abbiamo ascoltato il segnale mentre veniva captato dai microfoni, senza mancare il suono “reale” fuori dalla sale di regia, direttamente in “presa diretta” senza filtro alcuno di fronte all’orchestra, respirando la stessa aria degli esecutori. Da tutto questo deriva che se l’hifi è una (bella) finzione, anche il disco lo è…anzi, lo è per primo. Ho ascoltato a lungo seduto accanto a John Dunkerley, il mitico sound engineer Decca (quello che come vi raccontavo era in grado di sentire che il direttore aveva lasciato qualche monetina in tasca), responsabile di alcune registrazioni che sono state considerate le migliori. Dunkerley, tuttavia, non ascoltava musica, ma ascoltava un impianto, un sistema di elettroniche terminato…con una bella coppia di B&W 801. Vi siete mai chiesti perché buona parte dei dischi suona bene proprio attraverso questi sistemi di altoparlanti? Non perché siano i migliori del mondo…quali lo sarebbero? Ma perché con essi sono stati ascoltati e decisi dal direttore e dal tecnico tutti i livelli, tutte le manipolazioni che il disco ha subito al momento del suo concepimento. Offrono quindi una sorta di “interpretazione autentica” del messaggio sonoro, un dato di fatto sul quale è inutile discutere più di tanto.