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Concludiamo il nostro viaggio attraverso le sale suonanti del Milano Hi-Fidelity 2025, iniziato nella prima parte (disponibile a questo indirizzo). SOMMARIO
Yamaha ItaliaLa certezza Entrare nella sala Yamaha è come sedersi in prima fila a una lezione di stile: niente effetti speciali, niente trucco, solo la sostanza di una scuola sonora che conosce bene il valore di una corretta neutralità. L’integrato A-S3200 mette sul tavolo quella grana “a fil di lama” tipica della casa di Hamamatsu: controllo ferreo, timbro sobrio, assenza totale di possibili colorazioni. È un suono che non strizza l’occhio a nessuno, piuttosto guarda l’ascoltatore dritto negli occhi e gli propone la sua verità. La stanza, piccola e un po’ nervosa, restituisce qualche ritorno in gamma bassa - fenomeno normale con volumi di carico ridotti e pareti vicine - ma le ottime bookshelf NS800A sorprendono come sempre: per estensione e coerenza riempiono lo spazio meglio di quanto la cubatura possa lasciar inizialmente immaginare. Timone e tablet sempre in mano a Matteo Franciullo, Product & Marketing Specialist di Yamaha Italia. Si inizia con il solito impeccabile No sanctuary here di Chris Jones tratto da Roadhouses and Automobiles. La dinamica è scattante, con transitori puliti; la velocità in attacco evita impastamenti e tiene la musica in tensione, come una molla ben tarata. Si prosegue con i Musica Nuda, con il SACD Ain’t no Sunshine tratto da Little Wonder. La scena si mette a fuoco in posizione centrale: il palcoscenico si apre a ventaglio, con una profondità che - pur penalizzata dalla stanza - rimane leggibile. Le voci sono il piatto forte: Petra Magoni canta chiara, solida, quasi tattile, con quella fisicità che rende credibili i corpi e non solo i loro contorni. Era praticamente li con noi. Si percepisce un medio non compiacente ma materico, educatamente illuminato. La catena digitale è lineare e trasparente: HA-L7A in veste di DAC (e all’occorrenza amplificatore per cuffie) fa da convertitore con Roon come sorgente. Nessuna rielaborazione, zero DSP: il messaggio di Musica nuda passa nudo com’è, e l’impostazione Yamaha premia questo approccio con una pulizia che non diventa mai asciuttezza fine a se stessa. Ancora dei Musica Nuda si passa ad ascoltare Roxanne tratto dal primo lavoro Musica Nuda. I colpi di contrabbasso di Ferruccio Spinetti arrivano imponenti, più per tempra che per quantità: è un pugno inguantato, deciso ma controllato, che non sporca il medio. Qui la stanza ogni tanto si fa sentire, ma l’integrato tiene a bada le code, mostrando grip e capacità di tenuta anche in fase di frenata.
Audio Graffiti: CVS, NovaudioIl clubbino che non ti aspetti Entrando nella bella sala del sempre bravo Sergio Pozzi, notiamo per prima cosa la civile esposizione di quanto contenuto in un cartello posto sulla porta di entrata che ben dispone. Subito dopo arriva la sorpresa della fonte, un bel registratore a bobina Studer A812. In sala campeggia il bel giradischi giallo CVS Vintage Revival su design Rek-O-Kut Rondine L-34. Vengono messi in funzione per primi gli speaker Novaudio Classic Eight, poi i più grandi Novaudio The Muse. L’ascolto della registrazione analogica su nastro appare insolitarmente nitido, ma l’atmosfera conviviale consente purtroppo ai visitatori di parlare in fase di ascolto e per noi il risultato è l’ingiudicabilità. Vige un’atmosfera da club, con un continuo via vai che rende difficile concentrarsi sull’ascolto. Il fascino di questa sala costituisce anche il suo limite: consentire una giusta socializzazione tra appassionati. Il suono è vicino a quello che ci si aspetta, nel senso di analogico, rotondo, con una morbidezza che accarezza più che scolpire. Non c’è la chirurgia del digitale, ma una matericità che conquista chi cerca emozione più che analisi. La scelta di brani complessi e poco conosciuti è coraggiosa, ma penalizza la percezione immediata: senza riferimenti familiari, è infatti difficile valutare la precisione timbrica o la correttezza della scena. Si percepisce comunque una gamma media ricca, voci dense e strumenti che emergono con naturalezza, senza spigoli. Il basso analogico, quindi, alti setosi, privi di aggressività; ma non aspettatevi il microdettaglio esasperato: qui il messaggio è tiepida musicalità, prima di tutto.
CharioDa valutare meglio in altra occasione Per il 50° anniversario del marchio, 1975-2025, venivano proposti molti speaker, tra i quali il bookshelf Constellation MKII Lynx (per distinguerlo dal suo progenitore del 1998), l’altoparlante da basamento a 5 vie Aria, la sezione laterale di una Serendipity in una stanza dalla geometria bizzarra, con elettroniche semimascherate che ad uno sguardo veloce identificheremmo con Copland e Roksan e tutti i diffusori attaccati alla parete posteriore, oltre a sedute vicinissime: una scelta che schiaccia il palcoscenico e priva l’ascolto di profondità e respiro. La scena praticamente non c’era, il suono risultava fortemente direzionale e si concentrava in un fascio centrale, con strumenti che faticavano a staccarsi dai cabinet; il basso appariva un po’ frenato e con code percepibili - chiaro effetto del posizionamento a ridosso della parete e delle riflessioni di prossimità - mentre il medio restava gradevole, ma non particolarmente arioso. La firma complessiva era rotonda, educata, con poco dettaglio e microcontrasto limitato: più comfort che analisi. Il probabile abbinamento Copland/Roksan lasciava intravedere spinta e musicalità, ma la distanza d’ascolto ridottissima e la parete alle spalle dei diffusori impedivano una corretta messa a fuoco: nessuna profondità, poco layering, immagini che non si stabilizzavano. Alleggerendo il toein, staccando i cabinet anche solo 20-30 cm dalla parete e arretrando la prima fila, il quadro sarebbe considerevolmente mutato: sarebbero decadute le code, si sarebbe aperta la scena e la nuova serie Chario avrebbe potuto mostrare timbri e coerenza che qui restavano in ombra. Per come è avvenuta si è trattato di una demo molto difficile da giudicare: c’era un potenziale nettamente percepibile, ma fortemente inficiato dal setup e dall’ergonomia della sala. Per ultimo, ma non da ultimo, l’indicazione degli speaker in funzione: tutto faceva supporre che suonassero le Academy Solaris, un 4 vie da pavimento, le uniche ad avere una sorta di scheda/segnalibro sulla testa, ma malgrado l’estrema vicinanza degli speaker affiancati dal suono non sembrava che fosse così. Ed infatti non erano quelle a riprodurre le nota Time to say goodbye di Sara Brightman tratta da Fly. Peccato.
Exhibo: Canton, Cyrus, KLH e T+AQuando la classe D riesce a far Cant(on)are A maggio 2025 Exhibo ha ampliato ulteriormente il proprio portafoglio audiofilo, accogliendo tre nuovi marchi di rilievo internazionale: Canton, Cyrus Audio e Magnat. Quale miglior occasione per presentarci qualcosa? E quindi doppia dimostrazione a rotazione con DAC T+A e la nuova Serie 40 Cyrus in regia (che ha sostituito la vecchia XR presentandoci il nuovo form factor) con civile indicazione di quale speaker suonasse nel momento dato. Una prima catena con speaker da pavimento, le model five della KLH. Finalmente siamo posti di fronte ad un impianto adeguato all’ambiente per volume d’aria e pressione; il posizionamento però prevede i diffusori molto bassi rispetto all’orecchio e la scena si abbassa visivamente e percettivamente, pur mantenendo un buon ritmo e una profondità che in asse centrale si fa sentire. Nei passaggi più articolati emergono risonanze d’ambiente, code brevi ma percepibili che impastano un po’ il mediobasso e rubano microcontrasto; la spinta dinamica delle nuove elettronica Cyrus è evidente, ma l’assetto “a bassa altezza” limita l’immagine verticale e l’headroom percepito. Con il cambio casse alle Canton Reference 5 GS e l’Annette Askvivk di Liberty, tratta dall’omonimo album, il quadro si fa più equilibrato: buon bilanciamento tonale, medio illuminato senza asprezze e dettaglio che emerge naturale, con voci ben scolpite e una grana fine convincente; restano, quando la tonalità delle voci o di certi strumenti sale, alcune risonanze ambientali (modi in gamma mediobassa/superiore) che alleggeriscono il fuoco e smorzano la profondità nei picchi; la selezione dei brani, chiaramente pensata per far risaltare microdinamica e trasparenza, evidenzia la capacità del sistema di restituire informazione fine a volumi moderati, ma non è ancora chiaro se questa tenuta di dettaglio rimanga intatta su tracce molto dense o a SPL più generosi. Con Plan B3 di Tommy Schneider il suono si conferma come lievemente scavato, svuotato dall’interno, non crediamo in relazione alla classe di appartenenza della parte amplificatrice: la stessa voce del sax sembra perdere qualcosa in termini di presenza, fermo il resto. L’assenza di trattamento acustico (solo un tappeto) spiega gran parte delle code e dello sfarfallio d’immagine laterale: alzare i diffusori di 10–15 cm (stand o spike più alti), ridurre leggermente il toein e arretrare la prima fila di sedie aiuterebbe a rialzare il fronte sonoro, asciugare i ritorni e stabilizzare i fuochi. Nelle condizioni in cui è la sala mostra comunque un potenziale concreto: con le KLH si apprezzano spinta e profondità a patto di accettare una scena bassa, con le Canton si ottengono equilibrio, aria e finezza, e con un minimo di correzione ambientale (o semplicemente volume un po’ più contenuto) il risultato potrebbe salire di uno scatto verso una presentazione più nitida, proporzionata e coinvolgente.
Omega Audio ConceptsQuando la forma è sostanza In un ambiente ampio e non trattato, suonava un impianto di livello, il cui componente centrale aveva la foggia di due punt e mez (scherziamo, naturalmente, perché come sappiamo quella forma, decisamente appagante per l’occhio, è strettamente correlata alla funzione) i diffusori a 4 vie M.U.S.A. erano molto distanziati e il punto d’ascolto arretrato: la scena si apriva in modo spettacolare, larga e profonda, con un respiro che dava subito una sensazione di grandezza, a tratti eccessiva forse per via della natura latamente riflettente dei luoghi. Il toe-in stretto però restringeva lo sweet spot: solo la fila centrale godeva di un’immagine coerente, mentre ai lati si percepiva più un diffusore che l’altro, con perdita di fuoco e coesione. L’equilibrio timbrico era quello che conosciamo: copertura completa della banda, basso solido, medio trasparente, alti definiti senza asprezze. Il dettaglio era buono, la separazione degli strumenti netta, ma la playlist scelta non aiutava a testare la tenuta in condizioni critiche: tutti i brani avevano una struttura semplice, senza sovrapposizioni complesse, restava quindi il dubbio sulla performance esibibile con passaggi orchestrali o rock denso. Le voci nei pezzi ascoltati risultavano leggermente in avanti, scelta che donava presenza ma sottraeva un po’ di calore al quadro complessivo, rendendo la riproduzione più analitica che avvolgente. Tutto questo premesso, la dinamica veniva preservata in modo mirabile. In sintesi: presentazione scenografica, grande respiro e precisione, ma con un’impostazione che privilegiava il punto centrale e una selezione musicale che non metteva alla prova il sistema fino in fondo.
Luxury: Atalante, Chario, PiliumIl valore della semplicità Atalante 7 Evo, Chario Aviator Aria, Pilium Leonidas un civile foglio A4 all’ingresso declinava ordinatamente le macchine presenti in sala, con tanto di prezzo. Nel momento in cui abbiamo visitato la bella sala di Alfredo Scauzillo abbiamo notato che erano in funzione solo le Chario e il Pilium, mentre le Atalante erano collegate, ma in quel momento non suonanti. Le forme geometricamente rigorose del Pilium con quella sua bella finitura opaca e l’ebanisteria classica e complessa al tempo stesso delle Atalante e delle Chario è innegabile che dispongano bene gli ascoltatori. Si susseguivano Libertango con la chitarra di Fausto Mesolella, tratto da Live ad Alcatraz, poi Bocca di rosa con la voce grave di Fabrizio De André tratto da Fabrizio de André Vol. 1, Per ricordarmi di te con la raffinata tromba di Fabrizio Bosso dal suo You’ve changed. L’immagine sonora appariva sempre adeguata malgrado la distanza reciproca tra gli speaker e l’estrema vicinanza del nostro punto di ascolto, con la tonalità delle voci rese trasparenti al punto da sembrare quasi fantasmatiche. La tromba di Bosso appariva lieve ed eterea, il contrabbasso non perdeva però in solidità. In losing my religion tratto da You don’t know Jacq la bella voce femminile jazzata di Jacqui Naylor mostrava le capacità dello speaker di rendere la gamma media. Con Turner’s ship di Malia & Boris Blank, tratto da Convergence, i ritmi elettronici di Boris erano un tutt’uno con la voce di Malia e producevano una bella immagine sonora ampia, anche se forse un po’ sbilanciata in termini di direzionalità. Abbiamo quindi deciso di trattenerci per ascoltare il vinile di One nite alone di Prince, tratto dall’album omonimo. C’è qualcosa che ancora non sembrava tornare. Dopo un dondolamento destra sinistra a caccia di chiarimenti, il nostro amico Patrick ci consigliava la seconda fila, in relazione alla possibile direzione del segnale sonoro. Aveva ragione, cambiavamo posto e qualcosa innegabilmente cambiava. La gamma bassa appariva in ogni caso più contenuta del dovuto e la medioalta rimaneva ultrabright, come per rendere il suono di un piatto colpito da una punta in legno illuminato simile a quando viene colpito da una punta in nylon. In generale sembrava avvertirsi una piccola distorsione in gamma medioalta, che si ripeteva innegabilmente, segno che il volume troppo alto mandava il sistema oltre la sua comfort zone: nei passaggi semplici però la riproduzione torna buona, con dettaglio credibile e un discreto senso di realismo. Il carattere del suono sembrava ancora un po’ direzionale, probabilmente per la disposizione in sala: le prime sedute risultavano più vicine a un singolo diffusore che alla coppia, restringendo la sweet spot e sbilanciando il fronte e forse incredibilmente smussando alcune caratteristiche. Il ritmo c’era ma non era travolgente, mentre la vetrata a sinistra aggiungeva riflessioni sul medio-alto che accentuavano l’asprezza quando si alzava la manopola. L’ambiente non trattato e la gestione aperta della sala (con persone che entrano ed escono, generando rumore di fondo) non aiutavano la messa a fuoco, e nelle impennate dinamiche comparivano code e impastamenti che si percepivano in termini di saturazione. Diminuendo il volume di 2–3 dB e riallineando le sedute per una simmetria migliore, la catena sembrava respirare meglio. Al punto che al cambio brano si notava una buona separazione degli strumenti, con piani sonori più leggibili; le voci risultavano lievemente in avanti, scelta che donava presenza ma sottraeva un filo di calore al mix, tuttavia il cantato era molto ben reso: estensione completa, corpo e articolazione delle consonanti, con un timbro che conservava matericità e credibilità. Ora la scena appariva più corretta e la catena mostrava la sua anima. In sintesi, una demo dal potenziale concreto, ma penalizzata da SPL e contesto: con volume moderato, sedute allineate alla coppia di diffusori e un minimo di attenuazione sulla vetrata, il sistema Chario mostrava una linea chiara - voce protagonista, buon dettaglio, scena più stabile - riducendo quelle asprezze che oggi mascherano il suo lato più musicale.
Audio reference: Gryphon, Pass Labs, RockportClasse e nobiltà Ci sono sale che, appena entri, ti raccontano già tutto: le dimensioni, il riverbero che si insinua tra le pareti nude, l’aria che vibra ancora prima che parta la musica. Qui l’ambiente era di medie dimensioni, senza alcun trattamento acustico visibile, eppure l’atmosfera era quella giusta. Licciardello conduceva con eleganza e mestiere, introducendo ogni brano con sicurezza e gusto, mescolando competenza e teatralità. La selezione musicale era d’esperienza: intelligente, calibrata, capace di valorizzare il sistema e al tempo stesso di accendere un po’ la platea, con qualche scelta forse un po’ ruffiana, ma efficace nel dare ritmo alla sessione. Le protagoniste, le Rockport Lynx, erano pilotate da una catena Gryphon composta da Commander e Antileon Revelation: elettroniche che non cercano l’effetto muscolare, ma il controllo assoluto. Ed è esattamente ciò che si percepiva sin dai primi secondi: dinamica pronta, ritmo solido, basso educato. Non mancava la presenza, ma era una forza trattenuta, come se la catena avesse sempre il piede pronto sul freno di precisione. Era una scelta di stile, e probabilmente anche una conseguenza dell’ambiente, piuttosto vivo e riflettente: non un difetto grave, ma una leggera nebbia che offuscava la trasparenza del tocco. Il dettaglio fine restava un passo indietro, la timbrica non era perfettamente limpida: difficile capire se il limite nasceva dalla registrazione o da prime riflessioni troppo precoci, che smussano i transienti e riducono il microdettaglio. Le Lynx rivelavano anche un carattere un po’ direzionale: lo sweet spot era preciso e definito, ma bastava spostarsi di poco e il fuoco si allentava, il medio perdeva un filo di ariosità. Poi cambiava il brano - una registrazione dal sapore vintage - e tutto prendeva un’altra forma. La tromba emergeva splendida, viva, incisa, mai troppo calda ma incredibilmente reale. Le armoniche erano ben disegnate, il corpo dello strumento era credibile, e la stanza, finalmente, sembrava respirare insieme alla musica. Segno evidente che la microdinamica c’era, e sapeva colpire quando il programma musicale non metteva troppo alla prova l’acustica. In generale, buona separazione e precisione sui pezzi scelti, ma il basso restava in cravatta e il piano non respirava come avrebbe dovuto. Qui la stanza nuda si faceva sentire: riflessioni precoci che appiattivano i piani e asciugavano l’ultimo quarto d’ottava di aria. Qualche dB in meno e un minimo di assorbimento laterale/soffitto probabilmente libererebbero la profondità e darebbero quel colpo di cassa che oggi rimane educato. Verdetto: catena veloce, controllata, coinvolgente sulle ritmiche, piano sottotono e impatto basso misurato per via del contesto; quando il brano lo consente. Le Lynx sanno punzecchiare l’attenzione con fiati credibili e timing granitico, lasciando intravedere un potenziale che in una sala trattata potrebbe fare un deciso salto in avanti.
TSOTV: Otari, Oudimmo, SamsonOvverosia, lo sterno messo a rischio Se l’Hi-Fidelity avesse un’attrazione principale, ebbene sarebbe proprio questa di The Sound Of The Valve. L’esclusivo rollercoaster di Mastro Zaini purtroppo offre pochi posti, ma garantisce un vero sballo in termini di potenza erogata e di induzione dell’effetto pelle d’oca. Nelle discese verso gli inferi e nelle rapide risalite verso il paradiso si respira sempre e comunque quell’energia positiva che ti fa vibrare in consonanza e ti ricorda il motivo per il quale ami così tanto la musica. Una volta che ci si è accaparrati il proprio posto a bordo si capisce che il setup è diretto a far provare emozioni genuine, anche fisiche, impossibili da provare altrove e non aspetti altro che il carrello si sganci e i vagoncini inizino a muoversi. I gigantici diffusori Quasar MKII, dipoli con sensibilità superiore ai 100dB, tre vie composti da 4 woofer da 38 cm, un full range Lowther DX4, un tweeter ESS AMT di Heil sono imponenti torri proprietarie, veri monoliti sonori pronti a trasformare la stanza in un’arena rock. Nella nostra permanenza sul rollecoaster Zaini il suo player a bobine Otari MX-5050 inviava il segnale analogico al preamplificatore stereo Eclipse che, dopo essere passato per il crossover elettronico Samson S-3way, lo ibridava con i suoi finali allo stato solido Why Not? (che nel tempo hanno avvicendato i precedenti valvolari, sempre proprietari) riuscendo a spingere i Quasar oltre l’immaginabile, fatti saldi l’alta fedeltà e il controllo assoluto e roccioso del segnale sonoro. Non saremo certo arrivati ai volumi degli impianti PA, ma forse ne traevamo vibrazioni maggiori per via della minore grandezza dell’ambiente, imparagonabilmente più piccolo e ben trattato. Tutt’attorno a noi, ed anche all’ingresso, facevano bella mostra di sé chitarre d’epoca, come la Yamaha SG1000 con mogano, ebano ed alnico, e magneti Di Marzio sembravano spuntare da ogni dove. Nel perfetto stile della sala, veniva programmato un eccellente Another brick in the wall, come niente reperito da Zaini direttamente dalle mani di Roger Waters per quanto era registrato bene e con fruscio particolarmente contenuto. La temperatura della sala si innalzava velocemente. Percepivamo lo sbalordimento assoluto dei presenti. Tutti pensavamo che da un momento all’altro qualcuno ci sarebbe venuto a bussare per chiedere di diminuire il volume, sebbene con cautela, visto che Stefano era pur sempre il capo di tutta la lussuosissima baracca. Invece, incredibilmente, Stefano trovava non soddisfacente il livello. A quel punto si alzava dal banco dell’Otari, si dirigeva in modo studiatamente lento verso il pre e impugnava la manopola ruotandola verso destra ed aumentando il volume. Il pubblico presente, per lo più già andato in trance, raggiungeva un visibilio di natura quasi orgasmica. Ogni singolo colpo impresso dal piede di Nick Mason sul pedale della grancassa colpiva direttamente l’osso dello sterno dei presenti, ma al contempo il segnale sonoro rimaneva incredibilmente netto, intelligibile, perfettamente definito e lucido, forse anche grazie al lavoro dei tanti pannelli Oudimmo strategicamente posizionati in sala. Le persone giustamente rimanevano inchiodate alle loro sedie, invocando dell’altro ancora. Se passate per l’HF, dovete assolutamente salire su questo treno speciale, ma con grande cautela, perché - attenzione! - produce dipendenza!
VRELGrandi speaker dal piccolo ingombro Appena si varcava la soglia della sala, il colpo d’occhio era spiazzante: una stanza raccolta, quasi domestica, e al centro due diffusori dalle dimensioni monumentali. È uno di quei set-up che, sulla carta, fanno temere il peggio: vibrazioni incontrollate, onde stazionarie, un basso che travolge tutto. Ci riferiamo alle Vrel Bequadro # 3 MKII, diffusori italiani di scuola artigianale che incarnano la filosofia della massima trasparenza dinamica e della riproduzione piena, fisica, ma sempre controllata, alimentati da un giradischi con affiancato il preamplificatore phono a jfet GM_Phono V. 2.01_4 EQ di Fabrizio Baretta che contiene un selettore che consente il cambio di equalizzazione con varie curve di equalizzazione (Decca/DG/Teldec, Columbia usata da molti altri fino alla fine degli anni '60, Philips/Telefunken o RIAA), da un finale a valvole Vexo S20 e da un preamplificatore di linea Vexo LP-PS a due telai. Sin dai primi istanti appariva chiaro che chi aveva curato la dimostrazione sapeva perfettamente come prendere in mano la situazione. La scelta di un volume contenuto, calibrato con intelligenza, si rivelava vincente: la stanza non esplodeva, le pareti non tremavano e il sistema trovava un equilibrio raro in un ambiente così piccolo. È come se il suono avesse imparato a respirare con cautela, evitando di eccitare troppo l’ambiente ma restituendo comunque densità, corpo e coerenza timbrica. Il basso era pieno ma educato, mai eccessivo, con un controllo che tradiva la mano esperta di chi conosce bene l’interazione tra impianto e ambiente. La gamma media restava leggibile e ariosa, capace di mantenere una finestra chiara sul messaggio musicale. Certo, la scena non si apriva in modo cinematografico come in una sala ampia e trattata, ma c’erano profondità, prospettiva e un senso di scala credibile, ben più di quanto le dimensioni avrebbero potuto far pensare. Non c’era traccia dell’effetto muro addosso che spesso affligge set-up analoghi: il suono avvolgeva, corposo ma controllato, con una focalizzazione precisa e un equilibrio tonale che invitavano ad ascoltare, non a giudicare. Si percepiva un potenziale compresso, pronto a sprigionarsi in uno spazio più generoso, ma già capace di emozionare così com’era. In definitiva, una demo intelligente, consapevole e raffinata, che dimostrava quanto la padronanza del volume e del contesto acustico contino più della potenza pura. Una lezione pratica di buon senso audiofilo: anche un sistema imponente può suonare equilibrato e musicale, se gestito con misura e sensibilità.
Spirit TorinoDa Torino si traccia sempre una strada, non a caso quella giusta Nella sala del marchio nostrano di cuffie più noto la curiosità era alle stelle e non solo per i prodotti da calzare sulla testa, non presenti. Oltre ad uno speaker Amphion bianco (che avevamo già avuto modo di sentire in passato, quando esibì una buona performance complessiva), trovavamo infatti elettroniche cinesi Audio-GD, che negli ultimi anni hanno conquistato sempre più spazio nel panorama Hi-Fi, apprezzate per la musicalità della gamma media, la precisione e la capacità di gestire la dinamica senza forzature. A completare il sistema, veniva presentato in anteprima nazionale il diffusore bookshelf coassiale Snorter Vortex, che prometteva di raccontare qualcosa di interessante se solo le condizioni lo avessero permesso. Siamo sempre particolarmente incuriositi dai prodotti di Spirit, anche solo importati, perché la loro scelta di marchi e modelli è sempre razionale e mai lasciata al caso o all’istinto. Purtroppo, il contesto ambientale non era dei migliori. La stanza era rumorosa, piena di persone che conversavano, con le chiacchiere che si sovrapponevano - incluse quelle del mediatore tecnologico - e trovare concentrazione diventava un esercizio spirituale che non poteva essere lucidamente richiesto a nessuno. Nonostante questo, il set faceva percepire subito di poter assicurare una copertura completa dello spettro, con una linearità di fondo convincente e senza buchi evidenti. La gamma media emergeva con personalità, i dettagli erano presenti e alcuni passaggi dinamici lasciavano intravedere il carattere naturale dell’impianto. Allo stesso tempo, però, le risonanze ambientali si facevano sentire, smussando il microdettaglio e riducendo la precisione complessiva del messaggio musicale. Il basso mostrava presenza ma mancava di quella solidità che serve a dare profondità e sicurezza alla scena; gli alti, pur definiti, perdevano brillantezza nella confusione dell’ambiente. Era come osservare un quadro da troppo lontano: i colori c’erano tutti, il soggetto appariva chiaro, ma mancavano quei particolari più fini che in definitiva fanno la differenza. Il potenziale del sistema era evidente: queste elettroniche cinesi, abbinate allo Snorter Vortex avrebbero potuto regalare un ascolto sorprendentemente dettagliato e musicale, con timbrica equilibrata e microdinamica controllata. Invece, tutto restava sulla carta: la qualità si intuiva, ma non riusciva ad emergere appieno. Verdetto provvisorio: un impianto promettente, che merita di essere ascoltato in una condizione più favorevole - silenzio totale e ambiente acusticamente trattato - per poterne valutare davvero le qualità e capire fino a che punto Audio-GD e Snorter Vortex possano sorprenderci.
Birdbox recordsIl bel suono full analogic Oltre al punto vendita presente al piano -1, Birdbox Records in questa saletta offriva una demo diversa dal solito, il cui protagonista non è un componente Hi-Fi o un intero set, bensì la registrazione. Birdbox Records, casa italiana discografica indipendente, per il tramite di Lorenzo Vella, sound engineer e direttore di Nightingale Studios (che per l’occasione fungeva anche da mediatore tecnologico), portava in fiera la sua filosofia, che condivide con pochissime altre realtà nel mondo: produzioni artistiche originali completamente analogiche. Un approccio raro e prezioso, che vale la pena di sostenere. Il setup, conseguentemente, è quasi tutto d’antan: due registratori a bobine, uno Studer A807 e un Sony APR-5003V (unico modello della serie con time-code), un giradischi Technics SL-Q2 con testina Clearaudio Virtuoso Wood, un preamplificatore phono NAD PP 2e, un ampli cuffia/DAC (ESS 9038 onboard)/Pre Audio-GD D28.38, due pre microfonici Ampex 250 a valvole usati come pre linea, due piccoli monitor attivi da studio Neumann serie KH120. Una catena più facilmente presente in studio piuttosto che in un boot, ma che racconta una storia chiara: bisogna partire da una incisione spettacolarmente curata per fare giungere l’emozione fino all’ascoltatore. Emerge subito, purtroppo, un dato incontrovertibile: la notevolissima dinamica complessiva del suono veniva un po’ inficiata da riflessioni e risonanze ambientali. I limiti fisici tipici dell’analogico c’erano tutti, con una estensione sull’ultrabasso contenuta e un controllo non chirurgico, anche a causa dell’ambiente, come detto. Ma il cuore dell’esperienza batteva altrove e risiedeva nel dettaglio e nella coerenza timbrica. Ogni nuance presente nel nastro, ogni respiro, ogni armonica emergevano con una naturalezza che ricordava un ascolto effettuato in uno studio di registrazione, non certo nel nostro comune soggiorno di casa. Il suono era caldo, materico, avvolgente, con quella grana analogica che non emerge in nessun grafico, ma si avverte bene sulla pelle. Le registrazioni scelte erano curate, pensate per mostrare dinamica reale e microcontrasto, senza vacui fuochi artificiali. Il risultato era un ascolto che puntava alla verità musicale: niente iper-dettaglio digitale, niente bassi pompati, solo musica, ma viva e vegeta!
Diesis AudioEbanisteria di gran livello in piccoli spazi Iniziamo dal set, formato da lettore CD e convertitore DA Nagra CDC, lettore di file Diesis Audio Tevere, convertitore D/A Aqua La Scala, preamplificatore stereo Diesis Audio Victoria, amplificatore stereo ibrido Diesis Audio Musica e diffusori Diesis Audio Aura presentati con una bella ebanisteria a vista. La stanza era piuttosto piccola, ma il diffusore, che possiede un driver a compressione da 45 mm caricato a tromba e due woofer frontali da 10” e da 12”, si prende la scena con una profondità esemplare meglio apprezzabile posizionandosi al centro dei due diffusori, dove il palcoscenico si apriva e il cabinet spariva lasciando spazio a un quadro sonoro coerente e arioso. La bella voce maschile di Terry Callier in Dancing Girl, tratta da What colour is love, risultava però in evidenza, complice un volume generoso che spingeva il medio-alto in avanti e accentuava la presenza, restituendo un timbro energico ma meno naturale del necessario. Si udivano chiari e fastidiosi rimbombi in gamma media, segno che il programma non era il migliore per quel set. Le diverse corde pizzicate dall’artista sullo strumento venivano addirittura riprodotte a volumi diversi. In un ambiente così raccolto l’energia immessa nell’aria faceva emergere risonanze rilevanti, soprattutto nei passaggi complessi, con sovrapposizioni dei ritorni che confondevano il messaggio e ne offuscavano i contorni, un ascolto che premiava la sweet spot discipline, per la quale spostarsi anche di poco cambia l’equilibrio in modo percepibile, tra un suono avvolgente e uno più preciso. Piuttosto probabile che il fenomeno sia legato alla natura emissiva della tromba. Diminuendo lievemente il volume la stanza potrebbe respirare meglio, le code si accorcerebbero, la focalizzazione guadagnerebbe fuoco e la bella profondità del sistema tornerebbe protagonista, perché resta l’impressione di un progetto capace di ampiezza e respiro, con un fuoco centrale convincente e una scena che, quando l’ambiente non la ostacola, sa farsi larga e profonda. Le cose miglioravano decisamente col programma più lineare e ancora meno affollato di Volver, Volver di Buika, tratto da Niña de fuego. In sintesi, alto potenziale penalizzato da gestione del livello e riflessioni: con una taratura più prudente, l’impronta Diesis - scena grande, presenza viva, senso di realtà - emergerebbe con chiarezza e diventerebbe davvero convincente.
Audio Note UKIl nobile lignaggio non va mai perso Entrare nella sala di Audio Note Uk è un po’ come fare ingresso nel soggiorno di un amico. Su un rack erano stati adagiati un giradischi Audio Note TT-Two Deluxe con stepup Audio Note AN-S4, amplificatore integrato Audio Note Meishu 300B Phono Silver Tonmeister che eroga 8 Watt in classe A, lettore CD Audio Note 3.1x/IIe, diffusori Audio Note AN-E Sogon Limited Signature che vengono forniti con AN-SOGON internal wiring, external crossovers, custom resistors and copper foil capacitors (AN-E Ltd e AN-E Sogon LTD Signature), dotati di 94 dB di sensibilità. La scelta di posizionamento in angolo voluta dal responsabile - corner-loading puro che sfrutta il guadagno di parete anche per dare corpo alle basse - e il programma orchestrale (una autentica rarità, in fiera) sembravano quasi voler mettere alla prova tessiture e microdinamica, ma più probabilmente, in relazione alle bassissime potenze in gioco, gli 8 Watt massimi erogabili dall’integrato, sebbene in classe A, miravano a conseguire una voce lievemente più autorevole. Il volume contenuto e la grande distanza tra i diffusori aprivano un palcoscenico profondo e stabile, con un realismo di sala notevole nonostante l’ambiente non trattato. La timbrica era calda, in pieno stile Audio Note, forse anche grazie alla classe A della sezione amplificatrice. Archi setosi, ottoni mai taglienti, un medio avvolgente che privilegiavano il flusso musicale alla cesellatura del singolo transiente. Al cambio brano con più enfasi in basso il sistema mostrava maggiore presenza e un buon equilibrio generale, pur lasciando emergere, su alcune note, code in gamma grave dovute alla prossimità agli angoli (SBIR + room gain) che tendevano a prolungare il decadimento; la scena restava ariosissima e libera, con belle proporzioni in profondità e un centro fantasma che si materializzava facilmente nello sweet spot, meno fuori asse. Non era certo la demo della vita, ma il flusso continuo, la coerenza e il calore invitavano a rimanere, malgrado il fatto che lo stesso mediatore tecnologico concorreva a creare rumore con i presenti, rendendo il lavoro davvero arduo. Con un po’ di assorbimento sui primi punti di riflessione o un mezzo dB in meno sul livello il basso si sarebbe asciugato e la messa a fuoco avrebbe guadagnato un paio di click, ma anche così l’impronta madre rimaneva chiara: musicalità prima di tutto, profondità credibile e una resa orchestrale che, per un contesto fieristico, ci è apparsa convincente.
MicroSound TechnologyIbridare valvolare e stato solido sapendo bene quel che si fa Entriamo in una sala in cui sono presenti varie macchine, sulle quali (tranne che per gli altoparlanti) era per fortuna civilmente apposto un cartello che le identificava univocamente. Sulla parete campeggiavano un registratore a bobine ReVox B77 MKII (dove scorreva il “nastro Beatles”), un convertitore D/A CDA1 (che usa i convertitori Burr-Brown PCM1792A), un integrato stereo ibrido XAI 20 (che eroga 20 Watt reali in Classe A su 8 Ohm per canale e ha sezione pre valvolare e sezione finale allo stato solido) e una coppia di speaker da stand Praelude 2.0 con impedenza 4 Ohm. Il cuore del set era l’amplificazione ibrida, che grazie alla sezione a valvole regalava al sistema quell’impronta analogica fatta di calore e fluidità, senza sacrificare il dettaglio (merito della sezione allo stato solido?): il suono non risultava affatto impastato, anzi, conservava una buona leggibilità delle microinformazioni. La sala presentava un minimo di trattamento acustico, sufficiente a evitare echi fastidiosi, ma il posizionamento dei bookshelf non appariva ottimizzato: mancavano simmetria e distanza dalle pareti, e questo si rifletteva inevitabilmente sulla scena, che non riusciva a staccarsi completamente dai diffusori. Il risultato era un ascolto piacevole, morbido, con timbri naturali, ma che non esprimeva tutto il potenziale in termini di profondità e focalizzazione. Le cose miglioravano non poco quando si passava a Plan B3 di Tommy Schneider. Con un setup più curato (stand adeguati, toein calibrato e qualche intervento in più sull’ambiente), questa catena avrebbe potuto offrire un equilibrio ideale tra musicalità valvolare e precisione, trasformando una demo “interessante” in una presentazione memorabile.
Final-AudioGli eleganti elettrostatici al prezzo che non ti aspetti Facendo ingresso nella bella sala di Final-Audio, la prima impressione era piacevole, sia perché si passava davanti alle simpatiche Bottiglie spiritose (lampade alcoliche esclusive che evocavano momenti piacevoli), sia in quanto la sala mostrava quella sempre gradita semplicità unita ad un bel design degli speaker. Il form factor dei pannelli elettrostatici Model 3+ (sensibilità 88 dB a 4 Ohm, potenza 30-100 Watt a 4 Ohm) è compatto; gli speaker erano affiancati da un subwoofer separato che avrebbe dovuto colmare le lacune in gamma ultra bassa. I pannelli venivano pilotati dall’amplificatore integrato Microsound Technology Ai60, che eroga 100 Watt su 8 Ohm e che può essere dotato di un DAC opzionale con a bordo i Burr-Brown PCM1792A, lo stesso presente nel modello CDA visto poco sopra. L’idea era interessante, anche considerato il prezzo umano degli speaker, ma il contesto non aiutava di certo: la stanza era raccolta, l’emissione del sub non risultava adeguatamente frenata e tendeva a introdurre code in gamma bassa, e la scena non riusciva mai a distendersi come si sarebbe sperato. Quando partiva la musica di Peter Gunn Theme di Henry Mancini, tratto da Instrumental Classics si apprezzavano la trasparenza tipica delle elettrostatiche sui fiati, la capacità di restituire ariosità e dettagli, ma mancava un po’ quella magia che ti faceva dimenticare la stanza, con una gamma bassa un po’ scomposta e troppo in avanti. Su Do you really want to hurt me di Karen Souza, tratto da Karen Souza Essential le voci, pur estese e luminose (anche troppo?), risultavano un po’ esili, e nei passaggi orchestrali più complessi il sistema faticava a mantenere precisione e controllo. Il sub, necessario per dare corpo, finiva per impastare talvolta il messaggio e ridurre la chiarezza complessiva: forse un subwoofer più frenato con chiara vocazione musicale, magari un Velodyne servocontrollato, avrebbe potuto aiutare. In generale, l’ascolto risultava però interessante, poiché permetteva di cogliere le qualità della tecnologia elettrostatica e la filosofia alla base del sistema - trasparenza, ariosità, dettaglio - pur mostrando i limiti evidenti di integrazione e d’ambiente. La scena restava coerente e leggibile, particolarmente estesa verticalmente, come naturale, ma non emozionava: sembrava un ascolto tecnico, didattico più che coinvolgente, un po’ da studio di registrazione prima del missaggio. In sintesi: un set-up che prometteva molto sulla carta, ma che in questa situazione non riusciva ad esprimere pienamente il proprio potenziale. Con un ambiente più controllato e una migliore integrazione del sub, le elettrostatiche avrebbero potuto mostrare tutta la loro eleganza; lì, però, erano restate un ascolto sobrio e misurato, utile per capire il carattere del sistema, senza entusiasmi.
Laho, ItaliAcoustic, Bricasti Design, LuminIl rigore da primi della classe Laho’ si presenta all’HF adottando un approccio diverso da quello scelto per il Gran Galà e presentando un set con diffusori compatti a due vie da piedistallo BadGirl Wood (sensibilità 93 dB, impedenza di 6 Ohm) in una sala minuscola, scelta ragionata che comunica subito attenzione al contesto e buon senso acustico. Il resto del set era composto dalla sorgente streamer Lumin D2/3, cui faceva seguito il DAC Bricasti Design M3 e l’amplificazione ItaliaAcoustic HSA O5S (125 Watt RMS ad 8 Ohm e 250 Watt RMS a 4 Ohm, con lo O2S in esposizione statica) in classe HS, una tipologia di amplificazione ad impulsi che - si spiega - non va confusa con la D (sebbene ne sembri una evoluzione), che effettua una variazione di tutti i parametri propri degli impulsi: non solo la larghezza, dunque, ma anche la frequenza e l’ampiezza. La riproduzione dei Dire Straits di Iron Hand, tratto da On every street, nei tre posti a sedere disponibili risultava piacevole e lineare. La voce si diffondeva bene in ambiente e creava una scena enorme, quasi troppo. La limpidezza del messaggio sonoro era estrema, forse anche a causa di una gamma bassa controllatissima, quasi assente. Malgrado questa apparente carenza, si avvertiva qualche leggera risonanza in basso, che però in uno spazio così contenuto è quasi naturale insorga e risulta comunque facilmente accettabile per chi preferisce una gamma bassa frenatissima ad una esuberante solo a causa di un ambiente non adeguatamente trattato. Quest’ultima imprime un carattere linearmente deprivato e forse un po’ freddo, se confrontato con le sale precedenti, dove valvole e ReVox regalavano più calore e sostanza. Qui tutto appariva pulito, netto, senza sbavature, ma mancava quel guizzo emotivo che fa scattare in tutti noi il click emozionale. Nonostante ciò, Laho’ conferma solidità e coerenza: in tutte le sale ha proposto impianti pensati, razionali e spesso convincenti anche in presenza di evidenti limitazioni ambientali. Questa demo non stupisce, ma racconta di un approccio serio e ponderato, che punta alla musicalità equilibrata più che all’effetto scenografico.
Buscemi Hi-Fi, Pixel Engineering: Dali, NADLo strano binomio canadese-danese che colpisce A causa di un ingresso regolamentato, siamo stati costretti a tornare più (e più) volte per riuscire ad effettuare un ascolto. Quando finalmente siamo entrati in sala l’occhio ci è subito caduto sulla combinazione inedita degli speaker Dali Epikore 7 (sensibilità 88 dB, impedenza 6 Ohm) un 3 vie e mezza strutturato con 2 driver mediobassi da 7” e due tweeter ibridizzati con un dinamico a cupola soffice da 35 mm e un planare ad ampia dispersione condotti per mano dal preamplificatore streamer DAC NAD Masters M66 e dall’amplificatore stereo NAD M23, con una erogazione in potenza conservativamente dichiarata in 2x200W continui su 8 Ohm e 2x380W su 4 ohms. Suonava un excerpt dal sempiterno Kind of blue di Miles Davis. La sala era dimensionalmente generosa, ma i diffusori erano posizionati vicino alla parete posteriore, con poca attenzione al setup, e questo si percepiva subito, fin dall’impatto iniziale. Faceva seguito Temptation di Diane Krall, tratto da The girl in the other room. I primi ascolti restituivano una riproduzione lineare e pulita, senza sbavature né eccessi, con un equilibrio che privilegiava la neutralità. Il cambio impianto vedeva l’uso degli speaker più importanti, i Dali Rubikore 6 (sensibilità 110 dB, impedenza 4 Ohm) composti da 2 driver mediobassi da 6½ e da tweeter ibridati, un dinamico a cupola soffice da 29 mm e un planare magnetostatico da 45 mm, alimentati dall'amplificatore integrato stereo/streamer NAD Masters M33V2 da 380 Watt per canale su 4 Ohm. Il passaggio al set con la coppia di diffusori più esterna segnava un salto evidente: la musica acquistava corpo e profondità, la scena si apriva, le voci diventavano più setose, con un medio ben presente e bassi abbastanza controllati. Il pianoforte si mostrava limpido, con attacco definito e decadimento naturale, senza forzature. Tuttavia, al cambio brano, con le persone che discutevano tranquillamente in sala rendendo più difficile la valutazione, volume accettabile ma non adeguato e con l’arrivo di Money dei Pink Floyd, tratto da TDSOTM emergevano anche alcune peculiarità: le medio-alte si facevano più presenti, con la gamma alta che tendeva a spingere un po’ troppo, probabilmente a causa della particolare combinazione tra tweeter a nastro e tweeter a cupola soffice, che richiede un’integrazione particolarmente attenta affinché non risulti aggressiva. Il suono rimaneva frenatissimo, come senz’anima. Abbiamo aspettato molto prima di poter entrare e la sala ha mostrato raffinatezza e potenziale, con un impianto che sa restituire dettaglio e musicalità, ma che lascia qualche interrogativo sul bilanciamento in gamma alta. Con un posizionamento più accurato e un setup ottimizzato, questa combinazione avrebbe davvero potuto convincere e mostrare tutto il suo valore, confermando la serietà progettuale dei due noti marchi coinvolti.
Axiomedia: Aiyima, Arylic, FiiO, RSLa sala dei necessori Entriamo nella sala contenente i mille necessori di Axiomedia. Nel mare dei mille cavi e connettori scopriamo la perla: l’elegante micro impianto Aiyima 2.0/2.1 ch Bluetooth 5.1 amplifier A80 con i bei VU-meter che danzavano elegantemente con gli speaker bookshelf ultrapiatti Simbiosi di Mike Borghese Audio. Erano presenti in sala anche una sfilza di bei driver RS. Finalmente prodotti entry level ben suonanti per coloro che si avvicinano a questa passione. Impossibile uscire dalla sala di Axiomedia senza aver messo qualcosa sottobraccio!
Acustica applicata: Cessaro, FerreroIl trattamento ambientale come premessa ineludibile All’esterno della sala erano presenti i DAAD Mark II, registratori a bobine Revox, Studer e Telefunken, oltre a prodotti Cessaro Horn Acoustics e Ferrero. Su un lettore a bobine scorreva un nastro che il loro impianto e soprattutto i loro risuonatori acustici riproducevano come sempre impeccabilmente, con un suono solido, privo di qualsiasi risonanza. In sala abbiamo intravisto un pre linea valvolare Ferrero L9, un finale valvolare Alieno 150-120 LTD e speaker Cessaro Opus II. Tecnicamente interessante la possibilità del finale di poter utilizzare a scelta dell’utilizzatore le due più famose valvole a triodo riscaldamento diretto: le 300B per erogare 150 Watt per canale oppure le 2A3 per erogare 120 Watt per canale. Sempre impeccabili.
Exhibo: SennheiserL’unica sala latamente AudioVideo In questa ulteriore sala Exhibo esponeva un semplice set audiovideo composto da un lettore nascosto sottogriglia, un display e una soundbar Sennheiser Ambeo, con subwoofer Paul W. Klipsch. La sala, senza alcun trattamento, naturalmente risuonava ad ogni pizzicatura di corda di basso, ma il morbido blues di Muddy Waters faceva emergere una bella voce. Da rivedere/riascoltare con calma.
Morel, UltraFide, LinnRiuscire a cogliere sempre nel segno Arriviamo in una stanza piccola, raccolta, che accoglie un setup pensato con intelligenza, contenente anche diffusori bookshelf perfettamente proporzionati all’ambiente. Gli scarni set messi su da Morel (con UltraFide pre U4, ampli SP500 e U500DC, e player Linn Klimax DSM) non cercano mai l’effetto scenografico, ma la coerenza acustica, e il risultato non si fa attendere. Vengono proposte in sala due coppie di speaker, da basamento e bookshelf, con civile indicazione di quale suonasse di volta in volta. Sui bookshelf si ascoltava lo standard No sanctuary here di Chris Jones tratto da Roadhouses and Automobiles. I bassi, effettivamente presenti nell’incisione, erano la prima sorpresa evidente: estesi e controllati, con poche risonanze anche nei passaggi più complessi. Non c’erano gonfiore, né confusione: il registro grave scendeva con autorevolezza, senza mai perdere compostezza. Per il litraggio ridotto dei diffusori, la profondità di immagine appariva sorprendente: un equilibrio che dimostrava quanto la progettazione conti più delle dimensioni complessive. La scena sonora era un altro punto di forza. A una certa distanza di ascolto il diffusore spariva letteralmente, lasciando emergere un palcoscenico credibile, arioso, con strumenti ben distribuiti nello spazio: non parliamo di una scena “gigantesca”, ma di una ricostruzione proporzionata e naturale, che non forza la mano. Il medio era pulito e trasparente, le voci avevano corpo e presenza senza mai divenire invadenti. Gli alti erano dolci ma dettagliati, mai aggressivi, con una brillantezza che illuminava senza ferire. Proprio a cercar un punto debole, lo si poteva individuare nelle frequenze incrocio, che non risultavano mai legatissime. Nei brani più articolati, la tenuta dinamica era notevole: nessuna compressione, nessun cedimento, segni di un’amplificazione ben calibrata e di una riuscita interfaccia diffusore-ambiente. In sintesi, questa sala dimostrava per tabulas che non serve la potenza di fuoco per emozionare: bastano invece equilibrio, coerenza e cura. Un ascolto che conquistava per naturalezza e musicalità, ideale per chi è alla ricerca di un suono raffinato da realizzare in spazi contenuti. Bravi come sempre!
Audio Review e Audio GalleryLa stampa Presente - come sempre - lo stand di Audio Review e di Audio Gallery, posizionato nel solito angolo sinistro a pie’ delle scale del -1, con Mario Neri in persona a fare gli onori di casa.
ConclusioniSi esce da questo fine settimana con le orecchie piene, la mente satura di suoni e la sensazione di aver attraversato un piccolo universo parallelo fatto di legno, metallo, valvole incandescenti e file digitali. Un viaggio denso, forse persino troppo: tante sale, tante proposte, tante anime sonore che si sovrappongono come voci in un coro a volte armonioso, altre un po’ dissonante. Il numero elevato di partecipanti e di espositori è la misura di un mondo ancora vivo, pulsante, ma anche il suo limite: piccole stanze affollate, troppa gente che parlava, troppa voglia di raccontarsi e troppo poco silenzio per ascoltare davvero. È mancata un po’ quella ritualità dell’ascolto che ogni audiofilo riconosce come sacra: il tempo di sedersi, chiudere gli occhi e lasciare che la musica faccia il resto. Indubbiamente la mostra milanese ha costituito ancora una volta il più grande mosaico di proposte del Paese: marchi di nicchia coraggiosi e curiosi, grandi nomi che difendevano con eleganza la loro storia, con anche piccole presenze commerciali capaci di avvicinare il pubblico nuovo. Quasi assente quello strato intermedio che un tempo rappresentava il ponte tra sogno e realtà. In alcuni casi, l’informazione poco chiara sui componenti in ascolto e presentazioni troppo frettolose o, peggio, del tutto assenti hanno reso difficile orientarsi tra elettroniche e sorgenti, mentre l’acustica - spesso non trattata - l’ha fatta come sempre da padrone, ricordandoci quanto fragile sia l’equilibrio tra tecnica e ambiente. Eppure, nonostante tutto, il bilancio resta profondamente positivo: la passione era ovunque, tangibile nei discorsi, nei sorrisi, nei piccoli confronti tra ascoltatori che cercavano di tradurre in parole l’emozione di un suono. C’era ancora molta vita, nel mondo dell’alta fedeltà. E insieme agli appassionati di lunga data, si sono visti anche volti nuovi, più curiosi e sì, anche più giovanili e femminili. Forse è tempo di ripensare qualcosa nella formula, di restituire ordine, calma e consapevolezza all’esperienza dell’ascolto in fiera, a meno che il dialogo one-2-one con l’audiofilo non rappresenti un obiettivo irrinunciabile e, soprattutto, produttivo anche economicamente. Se l’obiettivo era misurare la temperatura del settore, la diagnosi è chiara: il cuore dell’audio batte ancora forte. E, a giudicare dal calore che riempiva ogni sala, non ha alcuna intenzione di fermarsi. Un ringraziamento sincero va al motore di tutta questa splendida rassegna, il buon Stefano Zaini, ideatore, creatore e instancabile organizzatore dell’evento, che con la sua passione e dedizione continua a dare forma e sostanza a un appuntamento ormai imprescindibile per ogni amante del suono. È grazie a persone come lui se l’Hi-Fi(delity), pur cambiando, resta un territorio vivo, aperto, capace di unire generazioni diverse sotto un’unica, grande passione: l’ascolto vero. Link alla prima parte del reportage SOMMARIO
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