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127 ore
Dimitri Bosi - 26/02/2011, 09:05
“Candidato a sei premi Oscar tra i quali miglior film e miglior interprete principale, arriva nelle nostre sale l’ultimo film di Danny Boyle, regista di Trainspotting e The beach, ispirato alla storia vera di Aron Ralston”

Mi vengono subito in mente, guardando l’ultimo film di Danny Boyle, i documentari shock, più o meno costruiti, sfornati giornalmente da canali come Discovery Channel, interamente dedicati agli extreme bodies, oppure ai survival o ad avventure di gente furba o semplicemente folle che dorme in mezzo al nulla, tra savane o brughiere desolate, mangiando schifezze di ogni tipo e rischiando di tanto in tanto la pelle. Oppure, ma siamo sullo stesso orizzonte visivo/concettuale, penso ai lavori che hanno vinto l’ultima edizione del Festival del cinema di montagna di Trento, Alone on the wall o Asgard Jamming, in cui si scalano senza corde o assicurazioni 500 metri di parete salutando la telecamera oppure ci si riprende mentre si suona il mandolino appesi a migliaia di metri di altezza. E ancora cosa si prova a correre gare di massa come 600 chilometri nel deserto oppure 166 per fare il giro del Monte Bianco in 46 ore.

Boyle ha le antenne della sua cinecamera mentale ben attente a captare quello che passa sulla scia del planisfero visivo: gusti, vogue visive e tendenze di massa ed è lì a riproporcele con tempismo e smaliziate capacità di racconto, dall’horror di 28 giorni dopo alla bollywood trionfante di Millionaire senza dimenticare Una vita spericolata appunto. In questo caso la base della storia è quella vera e terribile di Aron Ralston da lui stesso raccontata nel libro Between a rock and a hard place (una cosa per intenderci tra l’incudine e il martello).

Una vita spericolata e in fondo menefreghista è quella del protagonista del film – Aron è interpretato da James Franco, in piena ascesa ormai nell’olimpo dello star system internazionale (prossimo presentatore agli Oscar, Mago di Oz per Sam Raimi) - biker e climber senza freni muscolari che si lancia in un’escursione nel deserto dello Utah e qui, dopo un incontro fugace con due escursioniste sperdute, cade in una fessura di un canyon rimanendo bloccato da un masso che gli schiaccia il braccio sinistro. Iniziano cosi le 127 ore del calvario che porterà infine il giovane ad un gesto estremo. Aron dovrà fare i conti con quello che porta nel suo zaino per sopravvivere, rimpiangendo di non aver preso quel maledetto coltellino multiuso lasciato sulla credenza. E sì, proprio quello… Ma più del coltellino per Aron sembrano contare la telecamera e la fotocamera digitale. Con la telecamera Aron parla, si racconta ai suoi genitori, si conforta, mentre giace intrappolato, consapevole della fine dei suoi giorni, con la fotocamera e il flash scaccia gli incubi della fame e del freddo ed infine, appena autoamputatosi il braccio, pensa bene di fotografare il masso che lo ha quasi ucciso. Insomma l’occhio meccanico della telecamera, l’autorappresentazione dello sforzo e della sofferenza, è il punto di contatto con la sua intimità, l’àncora di sopravvivenza prima che il delirio della fame e della stanchezza prenda il sopravvento.

Un avvio del racconto senza tregua, velocissimo e poi la stasi. Quindi paesaggi mozzafiato come sempre in Boyle e poi primi, primissimi piani, dettagli di un racconto che è ovviamente una sfida alla natura e al cinema. Un uomo fermo dentro un crepaccio alle prese con un masso che rischia di ucciderlo. L’alternarsi di dettagli e campi lunghissimi, il gioco superlativo delle ombre sulla pietra (reso da ben due direttori della fotografia, Anthony Dod Mantle ed Enrique Chediak), il ricorso allo split screen (la divisione in tre parti dell’inquadratura) prima in senso sociologico e poi prettamente privato e intimo ci porta verso l’immedesimazione, in un racconto immersivo dentro la mente e i sentimenti di Aron. James Franco, con un’interpretazione maiuscola, senza pietismi o sottolineature eroiche, ci fa soffrire tutti i dettagli dell’assurda esperienza (chi ha letto Vedi di non morire di Bazell non potrà non ripensare all’auto estrazione del femore del protagonista che tuttavia assume un tono scientifico/grottesco sulla carta) fino ad una conclusione che esce dalla finzione per restituirci semplicemente l’umanità dell’uomo al di là del suo gesto.

Voto finale 7