In questo film il regista Benjamin Avila, partendo dai propri ricordi, cerca di raccontare gli anni della dittatura argentina e la tragedia dei desaparecidos dal punto di vista di un bambino di 12 anni.
Non è un'operazione nuova, mi viene in mente il recente ed ottimo "La bicicletta verde" che ci fa vivere il mondo arabo e le sue assurdità attraverso gli occhi di una bambina.
Però non basta avere un argomento "importante" per fare un buon film. Bisogna anche e soprattutto farlo, il buon film.
E a mio avviso in questo caso non ci siamo.
Il protagonista del film sembra vivere il mondo degli adulti che lo circondano come assurdo e incomprensibile, vi si adegua perché non può fare altrimenti, ma c'è una distanza incolmabile tra quello a cui assiste e quelle che sono le sue emozioni e i suoi desideri.
Mi domando che senso abbia un' impostazione del genere. Il regista sembra quasi dire: "quando ero bambino c'era una certa situazione, ho visto delle cose accadere a casa e fuori, non ci capivo niente anche perché più che altro pensavo ai fatti miei, quel poco che mi ricordo eccolo qua, beccatevi sto film - che comunque parla dei desaparecidos e ho detto tutto ...".
Secondo me un film del genere non serve a niente.
O quasi. Perché c'è una scena centrale, quella del dialogo con la nonna materna (madre della rivoluzionaria) nella quale si capisce come l'idea di rischiare la vita per una causa di libertà fosse ostacolata dalla generazione dei genitori, e nello stesso tempo incomprensibile ai figli.
Sembra quasi essere un'ironia della sorte, che quelli che hanno sacrificato la vita nel nome di un ideale lo abbiano fatto nell'ostilità ed incomprensione di quelli per i quali lottavano. Ma forse questo accade più spesso di quanto si pensi.
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