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"Sono il diavolo e sono qui per fare gli affari del diavolo." Siamo nel 1969. L’attore di film d’azione e western Rick Dalton (DiCaprio) rischia di essere messo da parte nel momento in cui il cinema di genere si sta rivoluzionando e avanza la Nuova Hollywood. Scopre che nella villa di fianco alla sua si è appena trasferita la coppia formata dall’attrice Sharon Tate e il regista in ascesa Roman Polański. Lo stuntman Cliff Booth (Pitt), sua controfigura, amico decennale e autista personale lo affianca nel percorso di temporanea discesa e conseguente depressione, sia sul set che nella vita quotidiana. Cliff si imbatte in Pussycat, una giovanissima hippy e si ritrova nello Spahn Ranch ora abbandonato ma in cui tempo addietro si giravano film e serie western. La ragazza lo presenta agli altri ragazzi che ci vivono sotto la guida di una sorta di guru, tale Charles Manson. Visto l’ambiente ambiguo Cliff decide di accertarsi che il proprietario storico del ranch stia bene, ma nel farlo incorre nell’ostilità dell’intera comune. Le vite dei due cambiano quando Dalton dopo il ruolo di cattivo in una serie western in cui ritrova la sua vena artistica si trasferisce in Italia per pochi mesi per girare una serie di spaghetti western più uno di spionaggio assieme a Cliff come controfigura. Il ritorno a casa avviene nell’agosto dello stesso anno, la notte in cui quattro ragazzi della Manson Family vengono inviati a uccidere Sharon Tate e tutti i presenti nella villa. Quando si entra in sala per assistere alla proiezione di un film di Tarantino è come entrare in una chiesa durante le feste comandate: per chi al cinema va sempre è un’occasione speciale, per chi non ci va quasi mai un momento per ritrovare l’ordine delle cose. Succede quindi che anche chi non è “educato” a stare in silenzio in mezzo ad altre persone ammutolisca già dal momento in cui appare il logo Columbia rigorosamente in stile d’epoca. Parafrasando la frase “Parlare di musica è come ballare di architettura” parlare di metacinema nella poetica di Tarantino sarebbe riduttivo. Il regista e sceneggiatore prende il cinema e gli dà una nuova forma. E in questo modo anche una nuova vita. Proprio così ci si sente dopo il film, rivitalizzati. Perché fa la stessa cosa con i personaggi e gli accadimenti che magistralmente racconta utilizzando la macchina da presa come vorrebbe che l’occhio dello spettatore vedesse, distorcendo prima e rimettendo in ordine nel finale. Come un bravo bambino in una stanza di giocattoli. Le interpretazioni dei protagonisti sono dinamiche e precise in ogni momento e sfumatura. Il Rick di DiCaprio attraversa ogni atteggiamento, sentimento, emozione con la capacità di un istrione: la sicurezza della star affermata, il dubbio insinuato dal produttore Marvin Schwartz (realmente esistito, interpretato da un cinico Al Pacino, ovviamente perfetto), la fragilità dell’uomo che sente che sta per perdere tutto e finisce in lacrime di fronte a un’attrice di appena 8 anni (Julia Butters), la conseguente rabbia con successivo riscatto grazie a un’interpretazione intensa, l’arroganza della persona famosa di fronte ai ragazzi che invadono la sua proprietà, la dolcezza quasi smarrita di fronte all’invito della Tate ad entrare a casa sua e del marito regista ben più famoso e importante di lui. Il Cliff di Brad Pitt è (o appare) invece imperturbabile. La morte della moglie isterica che pare avvolta da mistero, “l’incontro” con Bruce Lee, il rapporto con Brandy la sua pit bull attenta a ogni cenno del padrone, la freddezza nel rifiutare un rapporto con la ragazzina provocante, perfino un coltello nella coscia. Ogni suo movimento in una vita che sembra solitaria diventa quasi sublime. Margot Robbie dopo la folle Harley Quinn di Suicide Squad, la controversa pattinatrice del bio Tonya e la regina Elisabetta Tudor in Maria Regina di Scozia ci regala una Sharon Tate allegra ma non banale, un simbolo femminile per quegli anni scanzonati, della giovane donna che seppur con leggerezza sa dove sta andando. Il resto del cast è come sempre variegato e a ognuno viene assegnata una parte utile al grande meccanismo del film, tutti risultano ingranaggi perfetti. Emile Hirsch (Into the wild) è Jay Sebring parrucchiere di Hollywood e amico di Sharon Tate, la ex bimba prodigio Dakota Fanning è Squeaky, seguace di Manson che 6 anni dopo i fatti narrati nel film attentò alla vita del presidente Ford, Luke Perry (Beverly Hills 90210) nella sua ultima interpretazione è un attore della serie western, Bruce Dern (Nebraska) è il proprietario del ranch, Damian Lewis (Homeland, Billions) è Steve McQueen, Lena Dunham (che ha scritto, prodotto e interpretato l’ottima serie Girls) è un’altra seguace della Manson Family e infine Damon Harriman è Charles Manson per la seconda volta dopo averlo interpretato dietro le sbarre nella seconda stagione della serie Mindhunter. Non mancano due tarantiniani doc: Kurt Russell (il coordinatore delle controfigure Randy e il narratore del film) e Michael Madsen (lo sceriffo Hackett). E poi tre figlie d’arte in altrettanti ruoli di contorno ma non marginali: Margaret Qualley figlia di Andie McDowell che interpreta Pussycat, Maya Hawke figlia della musa di Tarantino Uma Thurman e di Ethan Hawke, già vista nell’ultima stagione di Stranger things che interpreta Linda Kasabian testimone chiave nel processo per l’omicidio della Tate e Rumer Willis figlia di Demi Moore e Bruce Willis che interpreta l’attrice Joanna Pettet. Le atmosfere ricordano come sempre diversi registi: ovviamente il miglior Sergio Leone (C’era una volta il west, C’era una volta in America), ma anche il Michael Mann del film Heat - La sfida e Dario Argento per la sequenza prefinale in piscina con la ragazza col viso rosso maschera di sangue che avanza urlando. Solo per citarne un paio. Perché tra le mille citazioni, molte autoreferenziali, ci si perde di continuo. Il montaggio (con diversi flashback privi di dissolvenze incrociate o altri stratagemmi) rende la visione scorrevole e leggera in un film che incalza molto meno del solito lasciando a una certa lentezza il compito di condurre lo spettatore ancor più dentro la storia. Non esiste noia, solo crescente attenzione. È il film migliore di Tarantino? No. È un capolavoro? Neanche. È un film che vorreste tornare a vedere perché è difficile trovare qualcosa che duri quasi tre ore senza mai sbadigliare? Sì. In maniera assoluta. Senza dimenticare che a Cannes ha ricevuto una standing ovation di circa sette minuti. Ma solo dopo una Red Apple. La pagella artistica secondo dottor Lemon:
C'era una volta a... Hollywood (Once Upon a Time in... Hollywood) regia Quentin Tarantino | sceneggiatura Quentin Tarantino | fotografia Robert Richardson | montaggio Fred Raskin personaggi | interpreti Rick Dalton | Leonardo DiCaprio doppiatori originali Corey Burton | annunciatore di Bounty Law critica | IMDB 8 (su 10) | Rotten Tomatoes 7.8 (su 10) | Metacritic 83 (su 100) incasso $ | 346 MLN (budget 90 MLN) camera Aaton A-Minima - Arriflex 435, Panavision Primo, C-, E-, T-Series and Ultra Speed Golden Lenses - Bolex Camera - Panavision Panaflex Millennium XL2, Panavision Primo, C-, E-, T-Series, Ultra Speed Golden, Normal Speed MKII, Ultra Speed MKII, Cooke Varotal and Angenieux Lenses | formato 35 mm (partial blow-up) (Kodak Vision 2383) - 70 mm (blow-up) (Kodak Vision 2383) - D-Cinema | aspect ratio 1.33 : 1 (Bounty Law, Interview Segment, Operazione Dyn-O-Mite!, & Red Apple Cigarettes Commercial) - 1.85 : 1 (The 14 Fists of McCluskey) - 2.39 : 1 | formati audio Dolby Digital - Dolby Digital (Dolby 5.1) - Dolby Atmos
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